venerdì 26 aprile 2013

Oltre la società del consumo (Achille Mbembe, Mail & Guardian, Sudafrica)



Negli ultimi vent’anni ha fatto molti passi avanti. Ma il Sudafrica è ancora lontano dai risultati che potrebbe raggiungere.



La banalizzazione della crudeltà e la ripetizione di eventi traumatici – il massacro alla miniera di Marikana del 16 agosto 2012, gli omicidi commessi dalla polizia, la proliferazione di forme di xenofobia, un numero orribilmente alto di stupri, una cultura sempre più dominata dall’avidità, dalla corruzione e dal furto, la nuova frammentazione della società, il riemergere del razzismo e la violenza delle proteste popolari – hanno spinto molti a chiedersi verso quale forma di ordine sociale, di libertà o di convivenza si stia dirigendo il Sudafrica.
Nonostante i vent’anni trascorsi dalla fine dell’apartheid non si capisce se ci troviamo davanti a qualcosa di radicalmente nuovo e insidioso, o se stiamo tornando alle vecchie bugie odiose e brutali, questa volta con la pelle e la maschera nera. Secondo Frantz Fanon – un importante studioso delle sindromi causate dalle lotte anticoloniali – i traumi provocati dalla supremazia bianca hanno prodotto nelle vittime l’incapacità di proiettarsi nel futuro. Schiacciate dal passato, queste vittime hanno una coscienza storica menomata e hanno sviluppato una tendenza alla ripetizione compulsiva e una profonda sfiducia nelle loro capacità di dare forma al futuro. Per sfuggire alla ripetizione, l’intera struttura sociale e psichica sarebbe dovuta cambiare. 
In questo modo sarebbe stato possibile reinventare un nuovo concetto di vita, libertà e umanità, distruggere un mondo popolato da maschere e costruire una nuova società.
Forse il Sudafrica sta ancora lottando per uscire dal mondo delle maschere. Di sicuro non rientra nella categoria degli “stati falliti” e sarebbe disonesto sostenere che negli ultimi vent’anni non è stato fatto nulla. Ma, allo stesso modo, il paese non è avanzato con decisione verso i risultati che dovrebbe raggiungere e verso quello che potrebbe diventare.
Il Sudafrica non sta tornando indietro. Nella migliore delle ipotesi sta vivendo un periodo di oscillazioni, svolte, cadute e risalite. Nella peggiore, è in una fase di stalllo.
Negli ultimi vent’anni ha fatto molti passi avanti. Ma il Sudafrica è ancora lontano dai risultati che potrebbe raggiungere lo. 
La più importante trasformazione dalla fine dell’apartheid è il passaggio da una società del controllo a una società del consumo. Questo cambiamento sta avvenendo in un contesto dove non sono presenti strutture di produzione di massa, dove i cittadini sono armati e, in gran parte, non possiedono quasi nulla.
Nei suoi quasi vent’anni al potere, l’African national congress (Anc) ha faticato a trovare la formula adatta per stabilire il suo dominio su una costellazione di formazioni sociali frammentate e diverse tra loro. Non poteva riprodurre il modello dell’apartheid, che si basava sul controllo degli spostamenti della popolazione non bianca. Inoltre, sotto il dominio della minoranza bianca, governare consisteva principalmente nel modulare l’uso della violenza. Nel Sudafrica post-apartheid non ci si è ancora resi conto di quanto l’uso della violenza sia stato interiorizzato e riprodotto a ogni livello della vita sociale e dell’individuo: nelle sfere più intime dell’esistenza quotidiana, nelle forme della sessualità, nel desiderio irresistibile per i beni materiali, nei rapporti con la burocrazia, nel comportamento della polizia, nella criminalità, nel linguaggio politico.


Se la politica e la cultura del Sudafrica sono in profonda crisi è perché abbiamo pensato che il diritto al consumo fosse la sostanza ultima della democrazia e della cittadinanza. Ma questa combinazione tra democrazia e consumo non è tipica del Sudafrica. 
La nostra è una democrazia con una maggioranza di cittadini senza proprietà che vivono in un paese modellato storicamente dalla contraddizione tra il governo del popolo e il governo della proprietà. Perfino la borghesia nera non è del tutto sicura che qualsiasi cosa possieda oggi (una casa, una macchina, un frigorifero) non le sarà portato via domani. L’Anc ha capito che il controllo non può più essere esercitato in un sistema chiuso, come in passato. 
Nella versione sudafricana della democrazia capitalista il controllo è fluttuante.
L’élite politica al governo e i poteri economici applicano uno schema infausto: la povertà di massa unita ad alti livelli di disuguaglianza, crimine e tasse può anche generare proteste disordinate, scioperi sporadici e un aumento della violenza, ma non deve innescare un ribaltamento radicale della struttura politica ed economica. 
Il Sudafrica è entrato in una nuova epoca storica: uno scenario postmachiavellico in cui l’arricchimento non avviene più attraverso l’esproprio immediato ma tramite  l’appropriazione delle risorse pubbliche, la modulazione della violenza e la strumentalizzazione dei disordini. Il clima culturale favorisce questa tendenza. I sudafricani sono legati a doppio ilo alle strutture della segregazione psichica, spaziale, mentale e affettiva più di quanto siano disposti ad ammettere. Questa nostalgia per il passato è stata favorita dall’aumento della criminalità e ha provocato una nuova frammentazione della società.

La condizione attuale è una conseguenza diretta della trasformazione del paese in una nazione di cittadini armati, con una polizia militarizzata, centinaia di imprese di sicurezza private e una popolazione divisa tra i pochi che possono pagare le tasse, ma non votano
il partito al potere, e i molti che sostengono il partito al potere e sopravvivono
grazie a vari tipi di sussidi.
Sempre più esposti a ogni genere di rischio, molti credono che il cittadino debba farsi giustizia da solo e che le dispute vadano risolte con la forza. Ma una società armata non sarà mai una società civile, una comunità politica e nemmeno una democrazia. Non è altro che un ammasso di individui soli davanti al potere, allontanati l’uno dall’altro dalla paura, dal pregiudizio, dalla diffidenza e dal sospetto. L’esperimento del Sudafrica con la libertà avrà vita breve se la violenza sarà lo strumento privilegiato delle relazioni tra i cittadini da una parte (che dovrebbero essere liberi e uguali), e lo stato e i mercati dall’altra. 
Le armi sono una forma di comunicazione barbara e antidemocratica. Se non ci opporremo, il governo del popolo si trasformerà in governo della proprietà, e il governo della proprietà diventerà presto il governo delle armi.

(Achille Mbembe è un ilosofo camerunese, uno dei più importanti teorici del postcolonialismo. Insegna alla University of the Witwatersrand di Johannesburg.)


Fonte: Internazionale N°996, 19/24 aprile 2013



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