mercoledì 29 maggio 2013

"Cosa" e "Perché" Londra (Alice Rondelli)



Coloro i quali hanno avuto il coraggio di fare una valigia piena di sogni e partire per Londra, sanno quanto costa in termini di aspettative, deluse o sublimate.
Sono arrivata a Londra il 14 febbraio 2012, ho dedicato a questa città un anno intero della mia vita e ora che sono ritornata in patria, sento l'esigenza di tirare le somme e condividerle con tutti coloro che, come me, non riescono ad immaginare il loro futuro Italia.

Londra mi ha obbligata a vivere a cento all'ora, non c'era via di fuga.
Quando fai la scelta di buttarti in un'esperienza di totale cambiamento, non puoi non mettere in conto che non sarà una cosa semplice.
Trovare una casa decente, sperare di trovare coinquilini rispettosi, tentare di non incappare nell'ennesima agenzia che ti tratterà gran parte del deposito adducendo scuse assurde, entrare nel vortice della "ricerca del lavoro perfetto" (quello che in Italia non hai trovato perché la meritocrazia non esiste), accontentarti di fare la tata perché "già devi ringraziare il Cielo di avere i soldi necessari a mantenerti senza gravare sulla tua famiglia", abituarti ad un clima che amo definire "ostile"...
E quando tutto questo sembra, tra alti e bassi, sistemato, finisci per chiederti:"Ma cosa cavolo ci sono venuta a fare?".
Eh si, perché ti mancano la tua famiglia, i tuoi luoghi consueti in cui sei cresciuto, la tua lingua, che sai usare alla perfezione e senza la quale ti senti come sulla torre di Babele, perché si, ti sai spiegare, ma non riesci ad esprimerti come vorresti.
Il lavoro che fai paga le bollette, ti regala un'inebriante sensazione di indipendenza che ti fa stare bene, ma non è quello che immaginavi quando ti preparavi a partire.
Io, personalmente, pensavo che avrei concretizzato tutti i miei sogni in quella città che, a detta di tutti, offre immense possibilità a chi ha voglia di mettersi in gioco e di investire tutte le sue risorse personali.
Londra però, non è più quella di vent'anni fa.
La concorrenza lavorativa è spietata: tutti i giovani, magari plurilaureati, che sfuggono dalla deprimente realtà attuale di molti stati europei, si riversano in questa grande città, e sono tanti, forse troppi perché ognuno possa davvero sperare di trovare il "suo posto".
Certo, ho sentito raccontare storie fantastiche, come quella di un annoiato e giovanissimo ingegnere italiano, che è fuggito dalle troppe responsabilità del suo lavoro e ha trovato un modesto lavoretto come "riempitore di saliere" in un ristorante londinese e nel giro di pochi mesi è diventato manager di quello stesso ristorante.
Si, perché a Londra la meritocrazia esiste.
Non accettano curriculum con foto, perché a loro non interessa se sei coperto di piercing e tatuaggi o se sei alta e formosa: a loro importa solo che tu sia un money-maker. Fai girare gli affari e loro ti gratificheranno sia economicamente, sia dandoti mansioni di responsabilità, che necessitano fiducia e rispetto delle potenzialità dell'individuo.
Londra è, inoltre, un pozzo di infinite possibilità di crescita personale.
Rimani stupito nel vedere alle due di notte, ragazze completamente ubriache e poco vestite, aggirarsi sorridenti per le strade e sui mezzi di trasporto, senza nessuna paura di essere molestate o aggredite.
Ti senti bene quando sai che a tutte le ora del giorno e della notte puoi muoverti ovunque per la città senza dipendere da un'automobile, perché i mezzi pubblici sono costosi, ma valgono fino all'ultimo cent in termini di organizzazione ed efficienza.
Ti stupisce incontrare in posta, in banca o al supermercato, persone disponibili e preparate che fanno bene il loro lavoro, soprattutto in tema di attenzione al cliente.
Ti si rinfranca lo spirito, quando in un giorno di pioggia, scopri che tutti i favolosi musei cittadini, prima della chiusura offrono ingressi gratuiti alle mostre temporanee.
Scopri che non si mangia affatto male, perché la multiculturalità ha permesso la prolificazione di ristoranti e prodotti per ogni gusto ed esigenza. Dall'halal, alla celiachia, dal vero biologico dei farmer market, ai soya drink presenti in ogni bar per tutelare gli intolleranti al lattosio.
La burocrazia è rapida ed efficace, grazie anche ad alla digitalizzazione estremamente funzionale di cui si avvalgono i comuni e lo stato.
La maggior parte delle biblioteche sono aperte anche alla domenica, le università sono dotate di sale studio immense e fornite in maniera inimmaginabile, la connessione internet è presente davvero ovunque e spessissimo è gratis, i parchi sono curati e rispettati come una risorsa indispensabile alla sopravvivenza in questa grande metropoli.
Si lavorata tanto, è vero, ma anche gli stimoli non mancano, ed è soprattutto la possibilità di incontrare persone provenienti dalle culture più disparate, quello che rende questa città così unica.
La maggior parte degli individui vive bene nella condizione di "immigrato", che a Londra ha un'accezione completamente diversa rispetto alla nostra.
L'immigrato può integrarsi in questo puzzle senza grandi sforzi, senza rischiare la ghettizzazione o gli sguardi indiscreti che spesso perseguitano gli stranieri in Italia. Ognuno può tentare di ritagliarsi il suo angolino di patria anche in terra straniera, perché questa stessa lo consente, senza alcuna limitazione.
A Londra la libertà d'espressione conta, perché l'individuo conta. Quasi non esiste la sfacciata esibizione della ricchezza alla quale in Italia siamo così abituati. Il denaro serve solamente a viver bene, a pagare ai figli buone scuole, a permettersi delle belle vacanze, abiti dignitosi e una bella casa.
That's it. E' questa la cultura inglese: vivi di cose semplici , lavora con dedizione, non giudicare gli altri per il loro aspetto e rendi la burocrazia più snella possibile.
Certo, c'è anche l'aspetto della speculazione finanziaria selvaggia da non sottovalutare.
Molti stranieri spostano la residenza a Londra per godere di un regime fiscale agevolato, sottraendo importanti risorse economiche al loro paese d'origine; ma questo è tutto un'altro discorso, un discorso che ha a che vedere con l'avidità umana e quella non ha confini politici, né culturali, è parte intrinseca dell'uomo che questa società ha creato e alleva come un mostro distruttivo.

Tirando, dunque, le somme, il mio consiglio è: viaggiate.
Scoprite quali sono i vostri limiti e tentate di superarli, perché, come diceva un inglese Doc:
"Non importa chi sei, ma chi pensi di poter diventare." (Freddie Mercury).



(Alice Rondelli)

sabato 25 maggio 2013

La terza leva del potere (The Economist, Regno Unito)




Internet e le tecnologie possono essere strumenti ideali per controllare le masse.  Tre libri spiegano come e perché.



Silicon valley è sinonimo di splendore, tanto nelle previsioni del tempo quanto in quelle economiche. I giovani vanno a lavorare in pantaloni corti, guadagnano stipendi a sei cifre e dichiarano spensieratamente di voler rendere il mondo “più aperto e più connesso”.
Tre nuovi libri, tra cui due di esperti del settore, mostrano che si è aggiunto un nuovo ingrediente alla già potente miscela di giovanilismo e ottimismo dell’industria tecnologica: il potere. Evgeny Morozov, che sostiene di guardare questo settore dall’esterno, è un severo critico delle vanità della Silicon valley. 
Il suo primo libro, L’ingenuità della rete (Codice), smontava la tesi secondo cui la tecnologia e i social network sarebbero in sé positivi per la democrazia. Al contrario, per Morozov la tecnologia è lo strumento ideale per gli stati repressivi che vogliono controllare i loro cittadini. Il suo nuovo, discontinuo, libro, To save everything, click here, va oltre.
L’autore attacca i fanatici della tecnologia convinti di poter rimediare ai mali del mondo “riducendo complesse situazioni sociali a problemi definiti in modo netto”.
Per Morozov questo atteggiamento è arrogante. L’ossessione della Silicon valley per i dati – un approccio quantitativo alla risoluzione dei problemi adottato, tra gli altri, da Google – ignora le sottili distinzioni e il pensiero analitico. Se permettiamo agli smanettoni di governare il mondo, la gente co comincerà a postare il contenuto dei propri secchi della spazzatura su Facebook, controllandosi a vicenda in tempo reale in nome dell’efficienza e della scienza. È un potere esercitato in maniera sconsiderata. Morozov è noto per i suoi attacchi ai colleghi e molti lo liquidano come un fanatico in cerca di attenzione. Un certo tono sarcastico e supponente nuoce ai suoi stessi argomenti, cosa che certo non può essere detta di Jaron Lanier, un informatico che contribuì alla diffusione del termine “realtà virtuale” e che oggi lavora per la Microsoft.

Come Lanier ammette più volte nel corso del suo libro, Who owns the future?, lui stesso è parte della realtà che critica, e beneficia in prima persona dalla sua partecipazione attiva
al sistema a cui vorrebbe mettere fine. Il punto di vista di Lanier ha ricevuto impulsi anche dalla sua attività parallela di musicista. Invece di aprirci le porte di una nuova era di prosperità, dice, l’industria tecnologica sta rendendo il mondo più povero. I lavori nei settori creativi, come la musica e la scrittura, stanno sparendo, perché comunicare e fare copia e incolla è sempre più semplice. Una fine che toccherà anche ad altri settori. 
Secondo Lanier è colpa dell’architettura del web. Il sistema è costruito per convincere gli utenti a dare accesso ai loro dati in cambio di servizi gratuiti, come la posta elettronica. Un patto che fa il gioco delle grandi aziende, da lui definite “sirene”, per l’attrazione irresistibile che esercitano. Mentre loro ingrassano al ritmo dei dati consegnati dagli utenti, la gente normale si impoverisce.
Lanier propone una soluzione radicale: se l’informazione vale soldi (e la crescita delle aziende che vendono dati sembra confermarlo), la gente dovrebbe essere pagata per il suo contributo. Nel complesso sistema che Lanier ha in mente, servizi come Facebook non dovrebbero più essere gratuiti, ma dovrebbero anche smettere di ottenere dati senza pagarli. Per ammissione dello stesso autore, però, è una proposta piuttosto difficile da realizzare.


Se il libro di Mozorov si fonda sulla teoria e quello di Lanier sull’esperienza personale, Eric Schmidt e Jared Cohen basano il loro lavoro, The new digital age, su una vasta e dettagliata ricerca. Schmidt è presidente ed ex amministratore delegato di Google. Cohen è un ragazzo prodigio del dipartimento di stato che ora dirige il centro studi interno di Google. Le loro idee sono ambiziose ed espresse in un linguaggio sobrio. 
In futuro l’intelligenza artificiale e i robot controllati con il pensiero saranno familiari. Anche  le automobili senza conducente e la realtà aumentata stanno già diventando tecnologie di consumo. Dopo aver accennato ad “avatar olografici” ed “elicotteri automatici”, gli autori si concentrano su come la tecnologia trasformerà le strutture di potere.
I governi che tendono a negare le inevitabili trasformazioni dovranno combattere per controllare i loro cittadini. Gli autori fanno l’esempio dell’Egitto. Il 28 gennaio 2011 Mubarak aveva chiuso l’accesso a internet alle prime avvisaglie della protesta. 
La mossa ha spinto gli attivisti a riversarsi nelle strade, accelerando forse la fine del regime. Fermare la rete è probabilmente una decisione ingenua, ma controllarla può essere molto efficace. È quello che fanno Cina e Iran. Altri paesi agiscono in modo più sottile. Come la Turchia, che aggiusta costantemente i livelli di censura in base al capriccio delle autorità o alle richieste pubbliche. Gli autori lo chiamano filtro “imbarazzato” del web. 
Mentre i governi cercano di scendere a patti con i cambiamenti provocati dai servizi gratuiti offerti da aziende come Google – servizi che gli egiziani, a differenza degli statunitensi, potrebbero non essere più in grado di permettersi se il sistema di pagamento universale di Lanier entrasse in vigore – la rete è destinata a frantumarsi sempre di più e a essere balcanizzata. Cohen e Schmidt prevedono un tetro futuro che potrebbe includere anche reti nazionali blindate, accessibili solo con documenti d’identità digitali. 
In una certa misura internet è già divisa, con i regimi oppressivi che limitano l’accesso al resto del mondo e le barriere linguistiche che rendono alcune reti, come la russa Runet, ecosistemi a parte. 
La preoccupazione più diffusa è quella per la guerra cibernetica che, usando i server proxy, offre agli stati la possibilità di negare le proprie responsabilità. Gli attacchi informatici stanno diventando sempre più comuni e Cina e Stati Uniti sono i due maggiori provocatori. L’anno scorso, il documento di una commissione parlamentare britannica esortava a usare tecniche di ciberguerra per accedere alle reti nemiche “senza essere scoperti (o almeno senza essere identificati)”. 
La sicurezza virtuale, sostengono Cohen e Schmidt , diventerà un tema sempre più caldo nei prossimi anni.
The new digital age è un’opera ponderata. Nonostante il ruolo dei due autori, non veicola la propaganda della Silicon valley, anche se tradisce un po’ della solita arroganza del settore. Ma soprattutto eleva il dibattito sulla tecnologia: invece di chiedersi se le ultime app sono davvero utili, affronta la ben più vasta questione di come la tecnologia interagisce con il potere.
Come sottolinea Lanier, le industrie leader del settore hanno accumulato un grande potere, in parte grazie agli algoritmi derisi da Morozov, con cui possono ordinare e analizzare le informazioni. Schmidt e Cohen dimostrano che questo potere può essere usato con intelligenza. Per secoli il mondo è stato tenuto in ordine attraverso le leve della religione e dello stato. Ora, segnalano questi libri, è in arrivo una terza forza.





(The Economist, Regno Unito)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

Le televisioni arabe non fanno la rivoluzione (Elias Khoury)




La nascita di Al Jazeera, la televisione del Qatar, è stata una rivoluzione per l’informazione del mondo arabo. La sua fondazione ha coinciso con il crollo dei due principali centri dell’informazione nel Medio Oriente: l’Egitto, dove giornali e tv sono stati messi fuori gioco dalla lunga dittatura di Hosni Mubarak, e il Libano, dove i mezzi d’informazione hanno assunto posizioni molto polarizzate a seconda della loro ailiazione settaria o religiosa. 
Quella di Al Jazeera e delle altre emittenti finanziate dai paesi del golfo Persico è stata una rivoluzione inaspettata. Con una patina di liberalismo e professionalità improntata alla Bbc, queste tv si sono affermate proponendo un nuovo linguaggio politico.
All’inizio sembrava di assistere a un miracolo. Era come se gli arabi avessero una Cnn tutta per loro, che portava un fresco vento di libertà. Poco dopo Al Jazeera è nata anche Al Arabiya, una rete finanziata dai sauditi con sede a Dubai.
Le due reti hanno saputo monopolizzare l’informazione politica del mondo arabo, soprattutto con il susseguirsi incalzante di notizie che ha accompagnato lo scoppio delle rivoluzioni arabe. Per anni è sembrato che l’unico scopo delle due reti fosse accompagnare gli arabi verso la modernità e far nascere un’informazione democratica, superando i tabù imposti non solo dalle dittature ma anche dai potenti mezzi d’informazione statunitensi. Le illusioni sono svanite appena è diventata evidente una certa vicinanza all’islam politico (accompagnata dalla proliferazione di programmi politico-religiosi conservatori, come quelli del predicatore egiziano-qatariota Yusuf al Qaradawi). Era la conferma che dietro l’etichetta di “democratico” si nascondeva un progetto difficile da decifrare per riallacciare i rapporti tra organizzazioni islamiche e Stati Uniti, e superare l’eredità dei sanguinosi attentati dell’11 settembre 2001.
Questi programmi non hanno però intaccato l’entusiasmo delle masse arabe, che su queste nuove tv potevano trovare anche voci liberali e a sostegno della resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Quando, all’inizio del 2011, sono scoppiate le rivolte arabe la situazione ha cominciato a chiarirsi.
In Siria il regime di Bashar al Assad ha proibito ai giornalisti stranieri di entrare nel paese, convinto che occultare la verità sull’enorme rivolta popolare che aveva investito città e campagne fosse la scelta più giusta. Inoltre Assad ha tentato in da subito di smentire le notizie sulla repressione, difondendo false informazioni sui ribelli siriani, che documentavano le loro imprese con i video su Facebook. In Siria la dittatura ha scompaginato l’informazione e la verità è stata la prima vittima del conflitto.
Presto si sono scoperte altre carte. Con Al Jazeera il Qatar ha sostenuto gli islamisti e i Fratelli musulmani in tutta la regione. Dal canto loro i mezzi d’informazione sauditi si sono trovati spiazzati, da un lato, per la tradizionale ostilità tra Fratelli musulmani e wahabiti (la corrente dell’islam dominante in Arabia Saudita), dall’altro, perché i salafiti, sostenuti da Riyadh, non sono riusciti a creare un’alternativa politica ai Fratelli musulmani e alle correnti liberali e di sinistra.
Come mai dunque Al Jazeera non ce l’ha fatta a diventare la nuova voce del mondo arabo libero né Al Arabiya una voce in difesa della democrazia? Innanzitutto perché quando gli arabi sono scesi in piazza l’hanno fatto per rivendicare libertà e democrazia, perciò è inverosimile che stati che governano territori ancora privi di una costituzione scritta siano
in grado di guidare una rivoluzione democratica. Inoltre, né il Qatar né l’Arabia Saudita potranno mai incubare un progetto rivoluzionario, qualunque esso sia. 
I regimi ultraconservatori del golfo Persico, il cui potere è strutturato secondo una rigida gerarchia, non potranno mai rappresentare un modello per i popoli che hanno spezzato le catene della dittatura alla ricerca di un orizzonte democratico e nazionale.
Qual è il senso di questo discorso? Vuol dire che noi, intimoriti dalla crescente influenza dei paesi del golfo Persico, dobbiamo ripensare le nostre valutazioni sulla rivoluzione siriana? No: la rivoluzione siriana va letta in primo luogo come una rivoluzione popolare contro la dittatura. È una rivoluzione che i siriani hanno cominciato da soli, senza ricevere all’inizio nessun aiuto esterno. Il sostegno straniero – che sia di tipo politico, economico, mediatico o militare – non basta a fare una rivoluzione. Anzi, oggi i giochi di potere esterni sono solo degli ostacoli, che permetteranno all’agonizzante regime di Damasco di prolungare la sua sopravvivenza.
La regressione dei mezzi di informazione invece ci fa riflettere sull’orizzonte culturale arabo, che dovrebbe stare al passo con l’impulso rivoluzionario e cercare di rinnovarsi a partire dai suoi centri: l’Egitto, la Siria e la Tunisia. Per le élite democratiche non rispondere a questa sfida significherebbe rifiutare la maggiore opportunità di rinascita culturale araba degli ultimi duecento anni. 

(Elias Khoury è uno scrittore nato a Beirut nel 1948, uno dei più importanti
autori in lingua araba. È il direttore della rivista Al Dirasat al Falestiniyya. Scrive una column settimanale per il quotidiano panarabo Al Quds al Arabi.)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

Cervelli in fuga (Pierre de Gasquet, Les Echos, Francia)




La politica di austerità accelera i lussi migratori dal sud della zona euro.
Con 42mila trasferimenti (su un totale di circa un milione di immigrati nel 2012, secondo le stime dell’istituto tedesco di statistiche Destatis) gli italiani che vivono in Germania superano gli spagnoli (trentamila), i greci (34mila) e i portoghesi. Anche se sono ancora distanti dai polacchi (180mila emigrati in Germania
solo nel 2012), il fenomeno non è sfuggito ai mezzi d’informazione italiani, che hanno visto nell’accelerazione della fuga dei cervelli all’estero un altro effetto perverso delle politiche di austerità.
Da una parte c’è un livello alto di disoccupazione giovanile nella penisola (38,4 per cento) e dall’altra il mercato del lavoro in Germania è molto attivo.
“C’è un aumento esponenziale delle richieste di impiego, del 300 per cento, in particolare per ingegneri, fisici meccanici e professionisti del settore aeronautico”, spiega Laura Robustini, che lavora per la rete Eures (Servizi europei per l’impiego).
Tra le altre figure professionali, le più richieste sono i tecnici informatici, i medici, il personale paramedico e gli operatori turistici. La conoscenza del tedesco è spesso un requisito necessario. Per alcuni lavori, invece, come quello di ingegnere aeronautico, non è sempre richiesta la conoscenza della lingua. Il numero di studenti italiani che sceglie il tedesco come seconda lingua all’università è in forte crescita (37 per cento in più nel 2012), così come le domande di soggiorno per studiare in Germania (36 per cento in più).
A Berlino la nuova emigrazione italiana è costituita soprattutto da giovani laureati.
La Conferenza episcopale italiana (Cei) ha presentato uno studio sul lavoro in cui parla di “fuga di cervelli a senso unico” che interessa quasi trecentomila laureati all’anno. Tra le professioni più esposte: gli architetti e gli ingegneri, che hanno visto crollare del 26 per cento il loro reddito medio annuo nell’arco degli ultimi cinque anni.


(Pierre de Gasquet, Les Echos, Francia)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

Giappone L’autogol di Hashimoto (Mainichi Shimbun, Giappone)




Le affermazioni del sindaco di Osaka e astro nascente della politica giapponese Tōru Hashimoto sulle “donne di conforto”, usate dagli eserciti come schiave sessuali, hanno scatenato molte reazioni in Giappone
e negli Stati Uniti. Durante una conferenza stampa il 16 marzo, Hashimoto ha dichiarato che il ruolo di queste donne durante la guerra era necessario per intrattenere le truppe giapponesi. E ha aggiunto che oggi i marines delle basi statunitensi a Okinawa dovrebbero fare un “buon uso” dei servizi messi a disposizione dall’industria dell’intrattenimento sessuale. In questo modo diminuirebbero i crimini commessi dai marines sull’isola ogni anno. Le autorità statunitensi nell’arcipelago hanno definito oltraggiose le affermazioni del sindaco e hanno invitato il governo giapponese a prendere le distanze. Per l’ex sindaco di Tokyo Shintarō Ishihara, che guida il Partito per la restaurazione insieme a Hashimoto, “i militari e le prostitute sono inseparabili”.


(Mainichi Shimbun, Giappone)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

venerdì 24 maggio 2013

La tentazione di Obama (The New Yorker, Stati Uniti)







Nei prossimi mesi il presidente degli Stati Uniti Barack Obama deciderà se approvare la costruzione dell’oleodotto Keystone, che dovrebbe trasportare petrolio greggio dalle sabbie bituminose dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie del golfo del Messico. Il 13 maggio Ottawa ha lanciato una campagna a sostegno del progetto negli Stati Uniti. 
Il messaggio è chiaro, spiega la giornalista Elizabeth Kolbert: “Il Canada è un partner commerciale più affidabile dell’Iraq”. Inoltre l’oleodotto creerebbe migliaia di posti di lavoro. 
“Ma ci sono ottime ragioni per opporsi. Per estrarre il petrolio dalle sabbie bituminose serve energia prodotta da combustibili fossili. Il risultato è che per ogni barile di petrolio estratto dalle sabbie bituminose, nell’atmosfera viene immessa una quantità di CO2 maggiore di quella prodotta dall’estrazione di un normale barile di petrolio. Se bloccherà il progetto, Obama non risolverà il problema dei consumi. Ma metterà un freno alla marcia verso la catastrofe climatica”.


(The New Yorker, Stati Uniti)



Fonte: Internazioe 24/30 maggio 2013, N°1001

Il petrolio siriano è un’arma di guerra (Borger e Mahmood, The Guardian, Regno Unito)



Nel nord della Siria si è allentata la pressione militare sulle forze di Bashar al Assad. Perché i ribelli hanno messo le mani sui pozzi e hanno ripreso il commercio di greggio.



La decisione dell’Unione europea di cancellare in parte l’embargo sul petrolio siriano per aiutare l’opposizione ha scatenato una forte competizione per il controllo dei pozzi e degli oleodotti nelle zone controllate dai ribelli. Inoltre ha permesso ai gruppi jihadisti di raforzare il loro dominio sulle risorse siriane. 
Il Fronte al nusra, una milizia affiliata ad Al Qaeda, ha preso il controllo della maggior parte dei pozzi nella provincia di Deir Ezzor, costringendo le tribù sunnite della zona a fuggire. Il gruppo ha anche sottratto altri campi petroliferi ai curdi del governatorato di Al Hasaka.
Mentre i gruppi dell’opposizione si scontrano nella lotta per il petrolio, l’acqua e i terreni agricoli, si è attenuata la pressione militare sulle forze del presidente siriano Bashar al Assad nel nord e nell’est del paese. In alcune aree il Fronte al nusra ha stretto accordi con le forze governative per trasportare il greggio oltre le linee nemiche fino alla costa del mar Mediterraneo.
Nelle province di Deir Ezzor e di Raqqa sono nate delle raffinerie all’aria aperta. Il petrolio è conservato in fossi e riscaldato in contenitori metallici su fuochi di legna.
L’aria, densa di un fumo nero, espone la popolazione locale ai pericoli dell’inquinamento e delle frequenti esplosioni che si verificano in questi impianti improvvisati. Petrolio, gasolio e benzina sono venduti in tutto il nord, fino ad Aleppo. Il greggio restante è spedito in Turchia a bordo di camion.
Un leader dell’opposizione siriana ha dichiarato: “Il fronte settentrionale non si è placato: si è messo in affari”.
L’Unione europea ha annunciato ad aprile di voler alleggerire l’embargo petrolifero per aiutare l’opposizione moderata. L’annuncio non si è ancora tradotto in realtà, ma la corsa al petrolio è già partita. E i combattenti islamici moderati, appoggiati dall’occidente, l’hanno già persa. “Chi riesce a mettere le mani sul petrolio, l’acqua e l’agricoltura tiene in pugno la Siria sunnita. Al momento è il Fronte al nusra”, spiega Joshua Landis, un esperto di Siria dell’Università dell’Oklahoma. “Sbloccando il mercato del greggio, l’Europa ha fatto emergere la questione con forza”.

“Il Fronte al nusra sta investendo nell’economia siriana per raforzare la sua posizione sia in Siria sia in Iraq. I suoi uomini vendono tutto quello su cui riescono a mettere le mani, dal grano ai reperti archeologici, dalle apparecchiature industriali ai pezzi di ricambio delle auto”, denuncia Abu Saif, un miliziano di un battaglione legato ai Fratelli musulmani, attivo a Deir Ezzor. “Il regime siriano paga il Fronte al nusra per garantire che il petrolio continui a scorrere nei due principali oleodotti di Baniyas e Lattakia. Lo fanno con l’aiuto di mediatori che godono della fiducia di entrambe le parti”.
Secondo un ex dirigente di un’azienda petrolifera siriana, i gruppi jihadisti stanno usando buona parte dei guadagni per ingraziarsi gli abitanti delle zone che occupano, come la città di Raqqa: “Si importa farina, si riparano i forni. La comunità locale accoglie i nuovi arrivati a braccia aperte. È una propaganda molto efficace”.

Da sapere:

-Dal 19 maggio l’esercito siriano, sostenuto dai combattenti libanesi di Hezbollah, ha lanciato una grande offensiva su Qusayr, una città sul confine libanese che era controllata dall’opposizione da più di un anno. I morti sono un centinaio, tra cui numerosi civili e uomini di Hezbollah.
-Il 21 maggio sulle alture del Golan i soldati israeliani e siriani si sono affrontati con colpi di arma da fuoco e di artiglieria. Israele ha avvertito il regime di Damasco che “subirà delle conseguenze” se i suoi militari apriranno di nuovo il fuoco.




(Borger e Mahmood, The Guardian, Regno Unito)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

Lotta globale all’evasione fiscale (Le Monde, Francia)



A quanto pare la lotta contro il debito pubblico negli Stati Uniti e in Europa ha un inatteso effetto benefico: suscita una generale mobilitazione dei governi contro l’evasione fiscale.
Ormai a essere presi di mira non sono solo i paradisi fiscali, ma anche il segreto bancario e le cosiddette politiche di delocalizzazione fiscale.
Il Consiglio europeo si è riunito il 22 maggio per discuterne. Anche gli Stati Uniti vogliono fare la loro parte, rendendo più severa la loro legislazione fiscale e lottando contro il segreto bancario. L’argomento sarà all’ordine del giorno del G8 – i “vecchi” paesi ricchi – a giugno nel Regno Unito.
Perché ora? La ragione è ovvia, le casse pubbliche sono vuote. Nella battaglia contro il debito e i deficit si contano anche gli spiccioli. Così gli stati, per molto tempo lassisti, ipocriti e complici, cercano ogni risorsa disponibile. E capiscono fino a che punto l’evasione fiscale legale – l’“ottimizzazione fiscale” – li privi di somme enormi di cui hanno grande bisogno.
Ma perché bisogna prendere questa mobilitazione più sul serio che in passato?
Stavolta due delle capitali più sensibili alla deregolamentazione, Washington e Londra, si sono impegnate nella battaglia. In questi giorni il rapporto di una commissione del senato statunitense – che rivelava come le imposte versate dalla Apple nei paesi in cui vende i suoi prodotti sono quasi inesistenti – ha avuto l’efetto di una vera e propria bomba.
In effetti la Apple, attraverso degli artifici legali, riesce a non essere fiscalmente registrata da nessuna parte. Su questo fronte anche il primo ministro britannico David Cameron è molto attivo e si è schierato a fianco di Berlino e Parigi contro gli abusi dell’“ottimizzazione fiscale”.
È una importante novità. L’evasione fiscale fa perdere ogni anno agli stati dell’Unione una somma cento volte superiore ai dieci miliardi di euro stanziati per aiutare Cipro!
A lungo difesa da Londra, l’Irlanda è sul banco degli imputati: con una tassa sulle aziende del 12,5 per cento – la più bassa dell’Ue – questo paese destabilizza l’intera Europa. Gli europei, se saranno coerenti, prenderanno la via indicata dalla Francia, cioè una progressiva armonizzazione fiscale.
Questo dovrebbe essere un elemento fondamentale in un mercato unico che si considera uno spazio di concorrenza leale.

(Le Monde, Francia)


Fonte: Internazionale 2/30 maggio 2013, N°1001

martedì 21 maggio 2013

Sfruttamento stagionale (Mathilde Auvillain, Terra Eco, Francia)



Reportage dalla Puglia, dove i lavoratori africani vivono nelle baracche e sono pagati poco più di un euro per ogni quintale di pomodori raccolti.



All’uscita dell’autostrada a Foggia decine di camion pieni di casse di pomodori sorpassano ad alta velocità le poche auto che sembrano smarrite.
Tra le distese di colore giallo nella pianura che si estende tra la costa adriatica e le colline del Gargano, i camion lanciati a tutta velocità su strade dissestate sollevano nuvole di polvere. 
Quest’atmosfera da far west diventa lentamente più simile alla boscaglia africana. L’asfalto sparisce e lascia il posto a una strada dissestata. Gli ammortizzatori cigolano e le auto sobbalzano.
Due giovani maliani avanzano rapidamente a piedi, passando per i campi, per raggiungere il “Gran Ghetto”. È il nome che i lavoratori stagionali africani hanno dato a una baraccopoli che si trova nel mezzo della Capitanata, la regione agricola nel nord della Puglia. Una vera e propria cittadina, organizzata in baracche costruite intorno a pochi edifici abbandonati. Le baracche sono fatte con cartone, legno riciclato, spago e corda. Durante la stagione della raccolta dei pomodori qui ci vivono tra le ottocento e le mille persone, provenienti in gran parte dall’Africa occidentale.
L’oro rosso da qualche anno ha conquistato le terre della Capitanata. Una coltura molto più redditizia dei cereali che si coltivavano prima. Nella regione si raccolgono ogni anno duecentomila tonnellate di pomodori, che vengono poi trasformati in conserva e salsa e venduti in Italia e all’estero.
L’industria agroalimentare del pomodoro ha un volume d’affari di trecento milioni di euro all’anno. I lavoratori stagionali africani sono pagati 3,5 euro per ogni cassa con circa trecento chili di frutta e verdura, secondo il prezzo concordato con il “caporale”, che incassa un’ampia commissione sul raccolto. Sotto il comando del “capobianco” (il caporale bianco), che è il tramite tra l’agricoltore e l’industria di trasformazione, c’è il “caponero” (il caporale nero) che, grazie alla rete di contatti creata nel corso degli anni, organizza la formazione di squadre basandosi sulle sue conoscenze e sulla capacità di ogni uomo che gli si presenta davanti.
In una giornata di dieci ore di lavoro, un uomo robusto e allenato può riempire al massimo sei o sette casse. Gli stagionali guadagnano quindi in media tra i 20 e i 25 euro al giorno, dai quali devono detrarre circa 5 euro per il trasporto nei campi, 3,5 euro per un panino la sera, 1,5 euro per una bottiglia d’acqua e 20 euro al mese per l’affitto di un materasso in una baracca. “A mezzogiorno gli uomini non si fermano per mangiare. Ogni tanto, se hanno troppa fame, addentano un pomodoro”, spiega Ilaria Paluello, una volontaria dell’associazione Io ci sto, che assiste gli stagionali. Lei stessa viene accompagnata nei campi, di nascosto: “Quando il capo arriva nel campo, i lavoratori devono mettersi sull’attenti e salutarlo. A volte urla ‘Non ho sentito!’ e li costringe a ripetere più forte ‘Buongiorno capo!’”, racconta.


Dopo la giornata nei campi, i lavoratori tornano nelle baracche del Gran Ghetto: materassi sfondati appoggiati sul pavimento di terra battuta, qualche coperta stesa in mezzo alla polvere e vestiti appesi a ili di plastica.
Abdou riposa, è appena tornato da una dura giornata di lavoro. Gli altri, Mady, Bamba, Ousmane si lavano prima di uscire. Bimarlo aiuta la padrona nigeriana di un “ristorante” a uccidere una capra in mezzo alla spazzatura, sotto gli sguardi affamati dei cani randagi. Il sangue dell’animale morto si mescola all’acqua sporca delle docce. I locali che ospitano i bagni sono fatti nel migliore dei casi con quattro pareti di plastica, altrimenti con delle tende appese a dei paletti. Niente tubature, solo un secchio di plastica che prima deve essere riempito alla cisterna. Al Gran Ghetto non c’è acqua corrente né elettricità. Alcuni generatori rombano dietro le “case” dei più ricchi, che fanno pagare cinquanta centesimi per far ricaricare la batteria di un cellulare.
Il campo è stato costruito vicino ad alcuni casolari abbandonati. Spesso sono occupati abusivamente o gestiti da caporali neri. In Italia sono molti i braccianti che vivono in queste condizioni. Secondo l’Istat, il 43 per cento dei lavoratori del settore agricolo lavora in nero, circa 400mila persone di cui una su quattro è in stato di grave sfruttamento. Secondo il sindacato degli agricoltori Flai Cgil, ogni anno lo stato perde

circa 420 milioni di euro di tasse su questo lavoro sommerso. “Senza contare che l’assenza di tutele dei lavoratori, pagati meno della metà rispetto al salario medio legale, arricchisce la criminalità organizzata”, afferma un comunicato del sindacato. I caporali, infatti, sono spesso legati, direttamente o indirettamente, alle organizzazioni criminali.


“Fino a prova contraria, siamo un anello essenziale dell’agricoltura italiana. Da sud a nord, sono gli africani che lavorano nelle campagne! Ma le autorità si rifiutano di prendere atto di questa situazione, di riconoscere il nostro ruolo essenziale. Vogliono trattarci come persone di seconda classe”, si indigna l’ivoriano Ibrahim Diabaté, che da anni attraversa l’Italia seguendo le stagioni. Raccoglie pomodori a Foggia d’estate, pesche e mele a Saluzzo, in Piemonte, in autunno, arance e clementine a Rosarno, in Calabria, d’inverno. Più di un anno fa si trovava a Nardò, nel sud della Puglia, quando gli stagionali africani hanno deciso di scioperare.
Per due settimane gli uomini si sono rifiutati di andare a raccogliere i pomodori.
Quando la frutta ha cominciato a marcire sulle piante, i caporali hanno accettato di aumentare un po’ la paga dei lavoratori. Quella stessa estate del 2011, dopo lo straordinario sciopero dei “braccianti”, si è deciso di punire il caporalato introducendo nel codice penale il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Punito con una pena tra i cinque e gli otto anni di reclusione e con una multa da mille a duemila euro per ogni lavoratore sfruttato.
L’adozione di questa legge però non ha avuto molti effetti sulle condizioni di lavoro degli stagionali, a causa dell’assenza di controlli e perché gli stagionali, che spesso sono senza documenti, hanno paura a denunciare i caporali. La situazione di questi lavoratori conquista i titoli dei giornali solo in occasione di eventi straordinari, come lo sciopero di Nardò, o gli incidenti a Rosarno. Qui, una sera di gennaio del 2010, un marocchino,

un ivoriano e un togolese sono stati colpiti da proiettili ad aria compressa esplosi da un gruppo di abitanti. 
Il giorno dopo duemila immigrati hanno manifestato nel paese per protestare contro quell’aggressione.
Per alcuni giorni ci sono stati scontri tra la polizia, gli immigrati e gli abitanti, che si sono conclusi con il trasferimento dei migranti nei centri di identificazione ed espulsione di Napoli e Bari. Due anni dopo quei fatti, per evitare nuovi episodi di tensione, il governo ha installato una tendopoli nella zona industriale di Rosarno,
con acqua ed elettricità. Ignorando completamente le ragioni profonde che avevano spinto i lavoratori immigrati a piegarsi a simili condizioni di vita. 
La sera, dopo il lavoro, sotto la sua tenda blu, Babacar Cissé – che lavora a Rosarno e al Gran Ghetto – scrive poesie. Lo stesso fa Ibrahim Diabaté. A Boreano, Zak guarda dvd di cantanti africani. Tra le migliaia di immigrati che lavorano nei campi italiani, molti sono diplomati. Adou ha abbandonato gli studi di sociologia per venire in Europa. Commenta con amarezza: “Ai tempi della schiavitù agli africani venivano messe le manette e le catene, si usava la violenza. Oggi si cerca di rendere le cose meno dure, ma le catene sono sempre lì.
Sono le catene del permesso di soggiorno, del lavoro o dell’alloggio. Tutte cose che mancano e che ti rendono asservito”. Con Issouf, Ibrahim e Babacar, migliaia di africani si svegliano tutte le mattine all’alba per andare a lavorare nei campi e nei frutteti della Calabria e della Sicilia. Sono pagati 4 euro per trecento chili di frutta raccolta. Frutta che inisce nei mercati d’Italia e d’Europa a circa due euro al chilo.

(Mathilde Auvillain, Terra Eco, Francia)

Fonte: Internazionale 17/23 maggio 2013, N°1000






Giornalisti spiati negli Stati Uniti (New York Times)




Il governo statunitense ha segretamente messo sotto controllo i telefoni dell’Associated
press (Ap) per due mesi nel 2012. La denuncia è arrivata dalla stessa agenzia di stampa,
attraverso una lettera dell’amministratore delegato Gary Pruitt pubblicata sul sito. Nella lettera Pruitt accusa il governo di aver violato i diritti garantiti dalla costituzione. Il 10 maggio il dipartimento della giustizia aveva informato l’azienda che nella primavera del 2012 più di venti redattori erano stati intercettati.
I giornalisti sotto controllo lavoravano nelle redazioni di New York, Hartford e Washington.
Il governo non ha fornito spiegazioni, scrive il New York Times, ma la vicenda sarebbe legata a un’indagine del dipartimento su un articolo dell’Ap che riguardava un’operazione della Cia in Yemen, organizzata per sventare un attentato di Al Qaeda.


Fonte: Internazionale 17/23 maggio, N°1000

Il Pakistan supera la prova di maturità (The Economist, Regno Unito)



Dopo una campagna elettorale insanguinata, l’affluenza alle urne è stata alta. Un dato positivo da cui partire per risanare un paese segnato da violenza, crisi economica e corruzione.



La notte del 12 maggio caroselli d’auto festeggiavano per le strade di Lahore la vittoria di Nawaz Sharif, già due volte primo ministro negli anni novanta, che si è aggiudicato il terzo mandato. La sua Lega musulmana pachistana ha vinto in maniera netta le elezioni nazionali e provinciali, mancando per poco la maggioranza assoluta. Ma visto che concorrevano anche vari partiti minori e candidati indipendenti, è un ottimo risultato. In parte era previsto, anche se la popolarità dell’ex campione di cricket Imran Khan aveva fatto pensare a un vantaggio del suo partito, il Pti, e alla conseguente frammentazione in parlamento. La giornata dell’11 maggio è stata il più grande successo elettorale della recente storia pachistana, nonostante le violenze che l’hanno segnata: il giorno del voto sono morte cinquanta persone ma, vista la minaccia dei taliban di mandare kamikaze ai seggi, sarebbe potuta andare peggio. Nonostante le intimidazioni, la partecipazione al voto è stata intorno al 60 per cento, contro il 44 per cento del 2008, segno dell’entusiasmo dei pachistani per la democrazia e della scomparsa di nomi fantasma dalle liste elettorali. Un aspetto decisivo è stato il basso profilo tenuto dai militari ai seggi.
Il successo relativo del Pti spiega da un lato la frattura generazionale – molti giovani pachistani l’hanno votato – e dall’altro la scarsa organizzazione del partito. eppure la piccola formazione politica oggi è la principale
forza di opposizione. Se sarà capace di tenere vivo il messaggio anticorruzione, tra cinque anni potrebbe guidare il paese.
Come previsto, il grande perdente è stato il partito di governo, il Partito popolare pachistano (Ppp). Per una forza politica che ha governato in anni segnati dalla corruzione dilagante, da una pessima gestione economica e dalla violenza crescente, è un risultato che non sorprende.

La vittoria di Sharif è netta, ma lo aspettano enormi difficoltà. La prima è il risentimento che nei prossimi anni potrebbe montare nella provincia più ricca e più estesa, il Punjab.
La lega musulmana qui ha vinto ma le altre tre province hanno maggioranze diverse che potranno ostacolare l’azione del governo centrale. La seconda preoccupazione riguarda il rapporto con l’esercito.
Nel 1999 Sharif fu deposto da un golpe dopo una clamorosa vittoria elettorale, in parte truccata. La sua capacità di gestire il rapporto con i militari oggi sarà cruciale per la stabilità del paese. In pochi si aspettano un confronto a muso duro, ma se Sharif dovesse perdere la sua autorità morale – all’epoca era oggetto di credibili sospetti di corruzione – l’esercito e i tribunali potranno colpirlo.
Vedremo poi se Sharif continuerà la sua campagna contro l’esercito, che lui accusa di combattere la “guerra americana” sul suolo pachistano. Ma la questione più importante riguarda l’economia.
La crescita del pil è bloccata. Il governo del Ppp ha cercato di ridurre la povertà fissando dei prezzi alti per i prodotti dei contadini e creando un sussidio per i poveri, e ha sovvenzionato anche alcune risorse energetiche, come il gas naturale. Ma ha trascurato settori dinamici dell’economia, come il tessile colpito dalla mancanza di forniture elettriche costanti. 
Sharif, inoltre, dovrà negoziare un nuovo prestito con il Fondo monetario internazionale e questo implicherà un aumento della pressione fiscale e altre riforme. Misure che richiederanno capacità di governo e una squadra di consiglieri di prim’ordine. Sharif è favorevole a una maggiore apertura al commercio globale, a migliori relazioni con l’India e a investimenti nelle infrastrutture. Dopo anni di annunci di bancarotta nazionale,
potrebbe avviare la ripresa economica. e magari seguire alcune delle buone idee dall’avversario Khan, come far pagare le tasse ai politici e combattere la corruzione. Già questa sarebbe una svolta. 

(The Economist, Regno Unito)

Fonte: Internazionale 15/23 maggio 2013, N° 1000



La Siria e la paralisi dell’occidente (Natalie Nougayrède, Le Monde, Francia)



Il segretario di stato americano John Kerry ha annunciato un accordo con Vladimir Putin per preparare una conferenza internazionale sulla Siria in cui si incontreranno i rappresentanti del regime di Assad e gli emissari dei ribelli. In questo modo ha soddisfatto due antichi desideri della Russia: avere un posto in prima fila sullo scacchiere mediorientale e ottenere la rinuncia dell’occidente all’idea di realizzare un cambio di regime a Damasco. Nel fare concessioni a Mosca, Kerry si è spinto oltre, dichiarando che “non spetta a lui pronunciarsi” sull’allontanamento dal potere di Bashar al Assad come condizione preliminare a eventuali trattative.
Una notevole marcia indietro, se si pensa che in dall’agosto 2011, con dichiarazioni solenni e concordate, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania hanno chiesto le dimissioni del dittatore siriano.
Con più di 70mila morti e cinque milioni di sfollati e rifugiati, la Siria è la Bosnia del nostro tempo: un’eco straziante dell’impotenza dimostrata dalla diplomazia internazionale tra il 1991 e il 1995 di fronte alle peggiori atrocità nei Balcani.
È un marchio d’infamia e d’incapacità posto su quest’inizio secolo, se si pensa che nel 2011 l’occidente proclamava di voler sostenere le aspirazioni democratiche della primavera araba.
Gli Stati Uniti – dove il presidente Barack Obama è stato criticato per i suoi tentennamenti sulla “linea rossa”, quella da non superare, cioè l’uso di armi chimiche da parte di Damasco – hanno optato per rilanciare la diplomazia. Le trattative previste saranno quindi aperte a dirigenti di un regime che varie organizzazioni dell’Onu hanno formalmente accusato di “crimini contro l’umanità” così gravi da far finire i loro autori dritti sul banco degli imputati della Corte penale internazionale. Facile immaginare la soddisfazione di Bashar el Assad, appoggiato dai suoi alleati russi e iraniani.
Non si è certo fatta attendere la reazione indignata della coalizione dell’opposizione siriana, riconosciuta dalla Francia e da altri paesi come “unica legittima rappresentante del popolo” siriano.
Ora il nuovo piano russo-americano per la Siria viene salutato dagli europei stendendo un velo pietoso sulla marcia indietro che comporta. Il piano consiste nel riprendere un “comunicato”, negoziato a Ginevra nel luglio 2012 e dettato in gran parte da Mosca, che è riuscito nell’impresa semantica di mettere vittime e carnefici sullo stesso piano.
Che trama si sta dunque tessendo? Questo riavvicinamento russo-americano, in cui gli europei sono relegati in un ruolo secondario, si iscrive in un quadro complesso.
1. Il problema siriano, pur sanguinoso, è stato discusso dalle diplomazie sempre in relazione alla questione del nucleare iraniano.
2. I recenti raid israeliani contro alcuni siti siriani puntavano a dimostrare che lo stato ebraico difende le “sue” linee rosse. Queste non hanno nulla a che vedere con i crimini commessi in Siria, ma sono legate solo alla percezione di una minaccia alla sicurezza di Israele: mi riferisco all’organizzazione libanese Hezbollah, alleata dell’Iran e attiva in Siria. Quei raid erano dunque un messaggio indirizzato a Teheran e anche a Washington:
“Se le linee rosse sul nucleare iraniano non saranno difese meglio di quelle sulle armi chimiche in Siria, ce ne occuperemo noi”.
3. I raid israeliani sono stati rivestiti di una patina di legittimità con la diffusione di informazioni sul presunto uso di armi chimiche in Siria. È come se Israele stesse conducendo una mini-guerra preventiva nell’interesse di tutti, russi compresi. E la diplomazia russa, infatti, ha reagito a quei raid
con inconsueta moderazione.
4. La conferenza internazionale sulla Siria, voluta da Obama, prefigura il trattamento che il presidente americano intende riservare al dossier del nucleare iraniano. In un certo senso si tratta di un test: per Obama, ben deciso a evitare nuovi “pantani” al suo paese, l’opzione militare resta uno spauracchio.
Il successore di George W. Bush è tuttora ossessionato dallo spettro della guerra in
Iraq, con il suo strascico di menzogne sulle armi di distruzione di massa.

Nell’estate del 2012 Hillary Clinton, ancora segnata dalla tragedia bosniaca, aveva cercato di convincere Obama che bisognava fornire armi ai gruppi di ribelli siriani per modfiicare i rapporti di forze sul campo. È la stessa posizione poi adottata da Parigi e Londra, anche se oggi con minore entusiasmo.
Ora John Kerry è stato incaricato di adottare un atteggiamento meno offensivo. Si capisce: le crisi mediorientali sono incastrate l’una nell’altra come matrioske, e l’occidente rischia di perdere credibilità cercando di sbrogliare questa matassa politico-diplomatica. È per questo che l’espressione “linea rossa” è stata svuotata di ogni senso. Ed è per questo che i civili siriani continuano a subire una tragedia all’ombra di un problema strategico considerato più grave del lor martirio: il caso iraniano e il pericolo di una proliferazione nucleare in Medio Oriente.


(Natalie Nougayrède è la direttrice del quotidiano francese Le Monde.)


Fonte: Internazionale 17/23 maggio 2013, N°1000

giovedì 16 maggio 2013

Operai senza diritti (Simon Mundy, Financial Times, Regno Unito)



La Samsung è sotto accusa per le condizioni dei lavoratori che assemblano i suoi prodotti nelle fabbriche cinesi.



I documenti pubblici della Samsung Electronics, come quelli di molte multinazionali, servono soprattutto a tranquillizzare gli investitori, sempre più attenti alle ricadute sociali del comportamento delle aziende. Alla prima riga del codice di condotta del gruppo sudcoreano si legge che la più grande azienda tecnologica al mondo rispetta “tutte le leggi e gli standard etici”. Ma ora, per la prima volta, qualcuno ha deciso di verificare questa dichiarazione d’intenti in tribunale. Alla fine di febbraio la Samsung è stata denunciata da tre associazioni francesi per la tutela dei diritti dei lavoratori (Sherpa, Peuples solidaires e Indecosa-Cgt). L’azienda è accusata di aver dichiarato il falso agli investitori e ai consumatori a causa di presunti abusi ai danni dei suoi operai e di quelli dei fornitori che producono in Cina. Il caso francese è la spia di una crescente attenzione internazionale per le condizioni di lavoro in Cina, dove le multinazionali sono accusate di scarsi controlli su catene di produzione sempre più complesse.
La denuncia francese si basa su alcuni rapporti dell’associazione newyorchese China labour watch, in cui si parla di illeciti sistematici commessi negli stabilimenti cinesi della Samsung e dei suoi fornitori. In due impianti ci sarebbero stati addirittura casi di sfruttamento del lavoro minorile. La Samsung sarebbe coinvolta in “pratiche commerciali ingannevoli”, in contraddizione con gli elevati standard etici a cui l’azienda dice di conformarsi.
“Il nostro è il primo tentativo di sanzionare a livello giuridico le chiacchiere vuote delle multinazionali”, dice William Bourdon, l’avvocato che ha presentato la denuncia in Francia. Bourdon, che guida la Sherpa, ha già costretto la multinazionale del petrolio Total a pagare cinque milioni di euro per abusi ai danni dei suoi operai in Birmania.
La Samsung nega le accuse di sfruttamento del lavoro minorile e di pratiche illecite all’interno dei suoi stabilimenti, ma ammette che a volte alcuni fornitori fanno lavorare gli operai oltre l’orario consentito.
L’azienda ha promesso di mettere fine a questa pratica “entro la fine del 2014”. Si tratta di un problema diffuso nelle fabbriche cinesi, dove il salario minimo è spesso al di sotto del livello di sussistenza, come ha dichiarato l’associazione China labour bulletin di Hong Kong.

Non è chiaro fino a che punto la denuncia possa influenzare gli investitori. I gestori di patrimoni con più di trentamila miliardi di dollari in portafoglio sono pubblicamente vincolati a rispettare i princìpi per l’investimento responsabile delle Nazioni Unite, che li obbliga a tenere conto dell’impatto sociale delle aziende in cui investono. Molti investitori, tuttavia, prima di disinvestire preferiscono “confrontarsi e richiedere standard più elevati” alle aziende accusate di pratiche scorrette, spiega Jamie Allen, segretario generale dell’Associazione asiatica per la corporate governance.
Le voci sulla Samsung, tuttavia, hanno già avuto un effetto. “Diversi gestori hanno messo il gruppo sudcoreano nella lista delle aziende su cui non possono investire in base alle indicazioni dei fondi di finanza etica”, osserva Pierre Ferragu, analista del settore delle telecomunicazioni della società di ricerche Bernstein.
È fondamentale il modo in cui un’azienda risponde alle accuse, dice Park Yookyung, consulente finanziaria esperta di governance dell’Apg Asset Management Asia, che investe nella Samsung. Se non si prendono provvedimenti adeguati su temi come lo sfruttamento del lavoro minorile, gli investitori si tirano indietro, aggiunge Park. “Se si dimostra che i dirigenti negano l’evidenza, a un certo punto bisogna prendere una decisione”.
Altre multinazionali che in passato sono state al centro di accuse simili hanno limitato i danni ammettendo l’illecito e prendendo subito provvedimenti. Nel 2001 la
Nike ha rilasciato una dichiarazione in cui ammetteva di essersi “fregata” per aver fatto produrre i suoi palloni dai bambini pachistani.
Nel 2006 la Apple ha risposto alle accuse di sfruttamento della manodopera istituendo una procedura di revisione annuale dei suoi fornitori e pubblicandone i risultati. 
I casi di sfruttamento del lavoro minorile registrati sono stati più di uno
(tranne che nell’ultima relazione della Apple). Secondo Li Qiang, direttore di China labor watch, la risposta della Samsung alle denunce dell’associazione è stata molto deludente rispetto a quella della Apple: l’azienda sudcoreana ha negato ogni responsabilità, nonostante la presenza di forti indizi di sfruttamento del lavoro minorile.
Nel dicembre del 2012 China labor watch avrebbe scoperto diversi bambini in una fabbrica che produce componenti per la Samsung. Appena due settimane prima l’azienda aveva smentito le accuse dell’associazione newyorchese in merito alla presenza di lavoratori minorenni presso un altro fornitore.
La Samsung non ha pubblicato una risposta dettagliata alle rivelazioni di China labour watch sulle condizioni di lavoro nelle sue fabbriche in Cina. Ha detto solo di essere fiduciosa che gli standard legali minimi siano stati rispettati. Secondo Li, il gruppo ha fatto dei passi in avanti sul trattamento dei lavoratori in Cina, ma nei suoi impianti si continua a violare la legge. “Non abbiamo mai trovato una fabbrica della Foxconn in cui gli straordinari raggiungono le 186 ore al mese. In una delle fabbriche della Samsung invece sì”.



(Simon Mundy, Financial Times, Regno Unito)


Fonte: Internazionale 10/16 maggio 2013, N°999