giovedì 25 aprile 2013

Le forze del disordine (Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador)



San Pedro Sula è la città più violenta dell’Honduras e una delle più violente del mondo. Tutti credono che la responsabilità sia delle gang criminali, ma spesso è della polizia. E per i cittadini non c’è modo di avere giustizia.



Fermatevi un attimo!”, dice la nostra guida. Da poco ci siamo lasciati alle spalle la città e ci addentriamo in una strada larga e polverosa, fiancheggiata da campi brulli e casette circondate dalla sterpaglia.
Questo quartiere ha un aspetto troppo rurale per essere considerato parte di San Pedro Sula, la città industriale più importante dell’Honduras (più della capitale Tegucigalpa).
La guida ci ha chiesto di fermarci perché finalmente siamo arrivati all’ingresso di Chamelecón, considerata dalla polizia una zona pericolosa. Dobbiamo compiere un gesto rituale: “Abbassate i finestrini”, ci ordina la guida. “Altrimenti penseranno che siamo venuti a sparargli”.
In lontananza, fermi sul marciapiede di una piccola casa con le pareti di cemento, alcuni ragazzi aspettano che ci avviciniamo o facciamo retromarcia. Siamo alle porte di una comunità che si estende per un paio di chilometri e sorge sulla riva di un iume al quale ha rubato il nome: Chamelecón. Il “posto di blocco” dipende da alcuni episodi avvenuti in passato: in varie occasioni sono entrati dei pick-up con i vetri scuri e alcuni ragazzi ci hanno rimesso la pelle. Secondo la polizia le vittime appartenevano alla gang Barrio 18. Abbassiamo i finestrini. La guida ci chiede di procedere lentamente. I ragazzi ci guardano con curiosità. Sono seri. Uno di loro fuma, un altro incrocia le braccia, un terzo ci punta contro il dito indice mentre parla al cellulare.
“Quei ragazzi sono sentinelle”, ci spiega la guida. “Sicuramente hanno avvisato gli altri che non siamo una minaccia”.
Al primo piano di un ristorante nel centro della città un gruppo di donne fa la fila per ordinare il pranzo. A prima vista sono un gruppo di amiche qualsiasi che si ritrovano per mangiare insieme. È solo dopo le presentazioni e i chiarimenti (fa davvero il giornalista? Come ha avuto i nostri numeri?
Perché vuole sapere chi siamo e cosa ci è successo?) che il gruppo svela la sua vera identità.
Saliamo al secondo piano e ci sediamo a un tavolo un po’ isolato. A quel punto, una delle donne, tra le risate, mi svela un segreto: “Non ci hai fatto caso, ma non ci siamo fermate a fare la fila fino a quando non abbiamo deciso che con te qui non avremmo corso pericoli”. Questa donna, che parla ridendo in modo nervoso e a denti stretti, più tardi ci porterà in una zona pericolosa della città dove un anno e mezzo fa suo fratello è stato torturato, sequestrato e fatto scomparire. Anche le altre due donne hanno perso dei familiari (in circostanze e luoghi diversi). Ancora oggi li stanno cercando.
Prima di terminare il pranzo, le donne mi hanno raccontato le loro storie, la vita dei loro parenti scomparsi e cosa è successo da quando non ci sono più. Mi hanno anche detto che il giorno prima del nostro incontro sono andate a vedere dei cimiteri clandestini e questa mattina presto hanno fatto un salto all’obitorio della città. Dopo aver bussato a tutte le porte per chiedere dei loro familiari, a pranzo parlano di argomenti meno dolorosi. Sono unite da un legame che non hanno scelto. È come se fossero iscritte a un club che in realtà non esiste (almeno formalmente): il club delle madri, delle mogli, delle sorelle e delle figlie
dei desaparecidos di San Pedro Sula. Per due anni consecutivi il Consejo ciudadano para la seguridad pública y justicia penal, una ong messicana, ha segnalato San Pedro Sula come la città più violenta del mondo. Il 2012 si è chiuso con un tasso di 169 omicidi ogni centomila abitanti. San Pedro Sula ha una pessima fama e si è fatta conoscere anche al di là delle frontiere nazionali. A febbraio un fotoreporter l’ha portata alla ribalta internazionale dopo aver ritratto una piccola scena di violenza che ha vinto il secondo premio del World press
Le forze del disordine Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador. Foto di Esteban Félix San Pedro Sula è la città più violenta dell’Honduras e una delle più violente del mondo. 
Tutti credono che la responsabilità sia delle gang criminali, ma spesso è della polizia. E per i cittadini non c’è modo di avere giustizia.

San Pedro Sula è una città pianeggiante dove è il caldo a stabilire la velocità con cui si muove la gente. Funziona così fino a quando piove perché, oltre alla violenza, la città è nota per il suo pessimo sistema fognario. San Pedro Sula genera il 60 per cento del pil dell’Honduras e si trova proprio sull’orlo del precipizio che le città più importanti dell’America Centrale cercano di superare per lanciarsi verso la modernità, ma non ci è ancora riuscita.
Quando piove, nel centro della città – progettato secondo la classica struttura urbanistica spagnola – la cosa migliore è restare in casa: in alcuni casi le piogge torrenziali hanno travolto passanti e automobili.
Mano a mano che ci si allontana dal centro, in molti quartieri le tubature delle acque nere scompaiono. E nelle comunità periferiche, come Chamelecón, se piove più forte tutto si riempie di fango. E nelle strade restano pozze d’acqua, pantani e vivai di zanzare.
È proprio quello che c’è davanti alla casa dove ci ha portato la guida: una pozza di fango e tante zanzare. La guida scende dall’auto e grida un nome. Dopo qualche secondo, si affacciano al portone due donne, le protagoniste di questa storia. La madre è bassa e sovrappeso. Ha 45 anni. La figlia è una bella bambina di dodici anni. Dopo i saluti e le presentazioni, la guida si rivolge alla signora, che è anche sua cognata: “Fagli vedere dove hanno sparato”, le dice. La donna ci mostra cinque fori di pallottola sul portone. Entriamo. La sala è piccola, e nel mezzo c’è un tavolo di vetro scheggiato su due angoli. L’hanno rotto gli uomini che hanno sequestrato Carlos López, il fratello della guida.
Il 21 agosto 2011, alle cinque di mattina, un gruppo di uomini ha svegliato la famiglia López di soprassalto, bussando con forza alla porta di casa. “Aprite o sfondiamo la porta”, ha gridato uno degli uomini, mentre altri due continuavano a sbattere violentemente i pugni. Carlos López non sapeva cosa fare, e solo quando la moglie gli ha chiesto di affacciarsi dalla inestra del salotto per chiedere agli uomini chi fossero, ha deciso di affacciarsi alla porta. Nella stanza, la moglie teneva stretta la bambina e spiava dalla finestra.
“Chi siete? Cosa volete?”, ha gridato Carlos López, e subito ha sentito ripetere la stessa minaccia: “Aprite o sfondiamo la porta!”.
In questa zona detta legge la gang Barrio 18. Per questo è difficile immaginare che la moglie, la iglia e la sorella non accusino del rapimento di Carlos i pandilleros.
La mattina del 21 agosto 2011 gli uomini che hanno fatto irruzione in casa loro indossavano uniformi simili a quelle della polizia, con armi grosse come quelle delle forze dell’ordine e i passamontagna usati dai poliziotti durante le retate a sorpresa.
Sul giubbotto antiproiettile di uno degli uomini la moglie di López è riuscita a leggere una sigla: Dnic, divisione nazionale d’investigazione criminale dell’Honduras. Carlos López viveva a Chamelecón da diciassette anni quando un gruppo di persone armate e con l’uniforme della polizia l’ha sequestrato e l’ha fatto sparire. 
Nel parcheggio di casa gestiva una sala con quattro tavoli da biliardo e una piccola rivendita di birre. Era conosciuto nella zona e andava d’accordo con tutti, proprio perché il suo locale era l’unico luogo di divertimento per gli uomini della comunità nel raggio di due chilometri. In posti come Chamelecón, quando si parla degli “uomini della comunità”, ci si riferisce anche ai
güirros, gli affiliati delle gang.
La sala da biliardo di Carlos López era aperta dal martedì alla domenica, dalle cinque alle dieci di sera. Tre volte alla settimana vari giovani delle gang si presentavano nel locale per giocare, ritrovarsi e chiacchierare.
A Chamelecón, come nelle centinaia di comunità dominate dalle bande giovanili in America Centrale, questi ragazzi sono una sorta di autorità a cui non si può dire di no. 
La posta in gioco è troppo alta. Ma per quanto possa sembrare strano, gli abitanti del posto rischiano di morire solo in circostanze straordinarie: se la gang ritiene che un abitante della zona, uomo o donna, abbia rapporti con la banda rivale o se sospetta che sia un informatore della polizia.
Una terza causa di rischio riguarda l’abuso sessuale nei confronti di ragazze giovani o nel caso di donne costrette a fidanzarsi in base alla legge del più forte, soprattutto quando le ragazze non hanno genitori come Carlos López, che sono rispettati dalle gang.

Gli affiliati delle bande sono igli di gente del posto. Le persone come Carlos López li conoscono da quando erano bambini e li hanno visti crescere. 
Carlos non aveva mai subìto nessuna estorsione dalle gang. Ma una volta al mese, su richiesta dei ragazzi e dopo una serie di trattative, regalava agli ailiati della Barrio 18 una cassa di birra. Faceva lo stesso per le feste e per i compleanni dei ragazzi della gang. Per questo né lui né la moglie pensavano di avere problemi con loro.
Invece temevano che si cacciassero nei pasticci. Soprattutto perché la presenza dei ragazzi della Barrio 18 nella sala da biliardo rischiava di causare un conlitto con l’altra fazione. 
Un gruppo che usa armi legali, ha distintivi ma da anni in Honduras è un’istituzione profondamente corrotta: la polizia. “Le ho ordinato di aprire!”. Carlos López ha aperto la porta, e la moglie è riuscita solo a percepire il gemito di qualcuno che era stato colpito così forte da rimanere senza fiato. Poi ha sentito il rumore di un vetro spezzato e ha capito che gli uomini avevano rotto il suo tavolo. Madre e figlia si sono abbracciate, ma sono state subito separate da uno degli uomini che è entrato nella stanza e gli ha ordinato di separarsi. Loro hanno obbedito e hanno visto Carlos López trascinato verso la cucina. “Sei il Mope!”, gridava uno dei sequestratori, mentre un altro lo ammanettava con le mani dietro la schiena.
Carlos ha cercato di opporsi, con la faccia contro il pavimento. Ha ricevuto qualche
calcio. “Che vuol dire che non sei il Mope? Fai parte della banda”, insisteva il sequestratore.
Anche la moglie di Carlos è stata interrogata, ma non è riuscita a parlare per la paura. 
In cucina, Carlos continuava a ricevere calci. “Si chiama Carlos López! È mio padre, per favore, lasciatelo stare”, ha gridato la figlia fuori di sé, vedendo il padre torturato e la madre che non reagiva.
La moglie di Carlos si è ripresa solo quando l’uomo si è avvicinato alla bambina. Si ricorda che ha quasi sbattuto il passamontagna contro il naso della figlia mentre la guardava fisso negli occhi, con uno sguardo pieno di cattiveria. “Mio marito non è il Mope!”, ha gridato, e poi ha abbracciato la bambina.
L’uomo ha ordinato ai colleghi in cucina di portare Carlos in cortile. Quella mattina in casa c’era anche una nipote di Carlos, che era arrivata la sera prima. Uno degli uomini l’ha scovata nascosta in un’altra stanza e l’ha trascinata nel giardino, tirandola per i capelli. “Questa qui è una di loro!”, ha detto, poi l’ha tirata su, le ha schiacciato il corpo e la faccia contro un muro e l’ha gettata per terra, a pancia sotto. 
Alla fine le ha messo uno stivale sulla nuca. Ed è rimasto così per un bel po’. Né Carlos López né la moglie capivano perché, dopo aver cercato dappertutto e aver messo sottosopra la casa senza trovare né droga né armi, quegli uomini continuassero a sostenere che in casa c’era un delinquente affiliato a una gang conosciuto come il Mope e a cercare droga e armi.
I sequestratori con il passamontagna, con le uniformi e i giubbotti antiproiettile simili a quelli della polizia, hanno torturato Carlos López per altri dieci minuti davanti alla moglie, alla nipote e alla iglia. Erano in sei. L’hanno fatto alzare strattonandolo per i capelli e, nonostante le preghiere delle donne, non gli hanno permesso di salutare nessuno. Poi l’hanno fatto salire sul pick-up con i vetri oscurati con cui erano arrivati. 
Hanno cercato d’inseguirli, ma sono tornate indietro di corsa e si sono nascoste dietro a un muro perché uno degli uomini, prima di salire sul veicolo, ha sparato una raffica di mitragliatrice contro la porta di casa. Secondo le due donne, voleva evitare che prendessero la targa del pick-up.
Alcuni anni fa, alla vigilia di Natale del 2004, un commando armato ha crivellato un autobus pieno di gente in una strada del quartiere San Isidro di Chamelecón. Sono morte ventotto persone, tra cui sette bambini. 
Proprio all’apice della sua campagna di tolleranza zero contro le gang, l’allora presidente dell’Honduras, Ricardo Maduro, ha denunciato che i responsabili erano gli affiliati di una gang. La polizia ha arrestato varie persone, presumibilmente della mara Salvatrucha, accusandole di quel massacro. Un anno dopo un tribunale ha condannato due dei sospetti a 822 anni di carcere. 
La sentenza ha avuto grande risonanza nei tribunali del paese ed è stata considerata da tutti un grande successo.

Ma secondo diverse organizzazioni per i diritti umani in Honduras, non è stata una gang a sparare all’autobus. Il dubbio è stato sollevato da uno dei candidati alla presidenza dell’epoca, che poi è diventato presidente dell’Honduras: Manuel Zelaya. Nel 2005 Zelaya (rovesciato quattro anni dopo da un colpo di stato) disse che, dietro all’attacco all’autobus, c’era un’alleanza tra il narcotraico e la polizia. 
Non è stata la prima né l’ultima volta che la polizia honduregna è stata accusata di essere dietro ad alcuni casi di strage.
Nel 2002 l’ispettrice di polizia María Luisa Borjas cercò di portare in tribunale un gruppo di ufficiali e investigatori della divisione nazionale di investigazione per la loro partecipazione a una serie di omicidi extragiudiziali di giovani sospettati di appartenere a una banda o di essere delinquenti.
Tra gli ufficiali c’era anche Salomón de Jesús Escoto Salinas, che nel 2009 è stato nominato direttore della polizia da Manuel Zelaya. Secondo l’inchiesta di Borjas, quello stesso gruppo era responsabile del sequestro di un ex ministro dell’economia e di aver ucciso i rapitori che avevano collaborato con il gruppo. Il capo del gruppo di sequestratori, sostiene Borjas, era Juan Carlos “el Tigre” Bonilla, che oggi è il direttore della polizia del paese.
Durante le sue indagini, Borjas è stata destituita ed espulsa dalla polizia. Ma da dieci anni è un punto di riferimento per parlare della corruzione delle forze dell’ordine in Honduras. Continua a sostenere che, dal 2002 al 2004, il governo di Ricardo Maduro “ha applicato una politica di sterminio contro presunti giovani delle gang o delinquenti, guidata dagli alti comandi della polizia, progettata e realizzata nelle città di San Pedro Sula e La Ceiba”.
Nell’ottobre del 2011, le accuse avanzate da Borjas tra il 2002 e il 2004 sono tornate fuori. Nella capitale Tegucigalpa un gruppo di poliziotti ha sequestrato e ucciso due giovani. Uno si chiamava David Pine da. L’altro era Alejandro Castellanos, il figlio della rettrice dell’Universidad nacional autónoma de Honduras, Julieta Castellanos.
Il crimine ha scosso il paese per due motivi: ha rivelato che i vertici della polizia avevano cercato di insabbiare i fatti e ha spinto l’Honduras ad ammettere non solo che la polizia nazionale è corrotta e ha un rapporto stretto con il crimine organizzato, ma anche che tra i suoi agenti ci sono degli assassini.
Il caso di Carlos López è uno tra le centinaia di sparizioni forzate o omicidi dell’Honduras. Un’amica della nostra guida – un’altra del gruppo delle mogli e delle madri dei desaparecidos – ha perso il marito, Reynaldo Cruz. È stato sequestrato in una strada traicata della città da un commando armato a bordo di un pick-up con i vetri scuri. Lei e il marito erano a bordo di un piccolo autobus quando il pick-up gli ha tagliato la strada e gli ha ordinato di fermarsi.
Dal furgone sono scesi alcuni uomini incappucciati che hanno puntato le armi contro tutti i passeggeri, poi hanno fatto scendere Reynaldo, gli hanno coperto il volto con un sacco, l’hanno fatto salire sul veicolo e l’hanno portato via. Ancora oggi nessuno sa dove si trovi. Gli uomini che l’hanno sequestrato erano vestiti come i poliziotti della Dnic: indumenti sportivi,
giubbotti antiproiettile e passamontagna. 
Anche Reynaldo, come Carlos López, gestiva una sala da biliardo nel suo quartiere, la Planeta, uno dei più conlittuali della città a causa della presenza delle gang. Prima di essere sequestrato Reynaldo era stato accusato dai poliziotti che pattugliavano il quartiere di proteggere i delinquenti delle bande. 
In realtà Reynaldo era un leader della comunità: gestiva una sala da biliardo, accoglieva ogni tipo di cliente e aveva rapporti con i ragazzi della zona, affiliati di una gang o no, perché organizzava attività ricreative. Di questi scontri con la polizia la famiglia conserva anche una foto, un po’ mossa, scattata da un uomo del posto durante una retata alla sala da biliardo, quando un gruppo di agenti ha cercato di portare via Reynaldo. L’unica testimone del sequestro, la sola che vuole ancora ricordare, è la moglie. Si è dovuta rifugiare in periferia, a
casa di alcuni amici.
Commando armati: ultimamente ne parlano tutti in Honduras, soprattutto a San Pedro Sula. Il 17 febbraio 2013 Óscar Ramírez, un giovane di diciassette anni figlio del penultimo direttore della polizia (è una carica in cui c’è molta rotazione), è stato ucciso in un lussuoso quartiere nei dintorni di Tegucigalpa da un commando armato.
Suo padre, Ricardo Ramírez del Cid, l’ex direttore della polizia, ha chiesto di aprire un’inchiesta sull’attuale direttore, Juan Carlos Bonilla, per possibili legami con il crimine.
Juan Carlos Bonilla detto “el Tigre”: lo stesso uiciale accusato dieci anni fa da María Luisa Borjas di dirigere un gruppo di poliziotti che uccidevano presunti delinquenti a San Pedro Sula.
Perché San Pedro Sula è la città più violenta del mondo? E perché l’Honduras è il paese più violento del mondo? È impossibile dare una risposta soddisfacente. Ma di certo oggi c’è una domanda ancora più urgente per capire la condizione degli honduregni: come si vive in un posto dove non ci si può fidare di nessuno, neanche della polizia?
Tutte le risposte convergono verso un solo colpevole che ha cambiato le carte in tavola, trasformando in potenti i cattivi e in cattivi i buoni. Quando parlano di questo colpevole di solito gli esperti si riferiscono a San Pedro Sula, ma la loro analisi funziona anche per spiegare quello che succede nel resto del paese. 
Migdonia Ayestas dirige l’istituto universitario Democracia paz y seguridad, un ufficio che fa capo all’Universidad nacional de Honduras e coordina un osservatorio sulla violenza voluto dalle Nazioni Unite.
Secondo Ayestas, “non esiste un’inchiesta criminale esaustiva in grado di spiegare le cause e i motivi di questa violenza. Ma i dati preliminari messi a disposizione dalle autorità indicano che, dietro quest’ondata di criminalità, ci sia il narcotraffico proveniente dal Sudamerica”.
Elvis Guzmán, portavoce della procura di San Pedro Sula, afferma: “Gli omicidi, lo spaccio e le gang più o meno legate alla criminalità organizzata sono una parte del problema più grande del narcotraffico. Non lo possiamo negare. È il problema attuale. Qui ce n’è parecchio”.
Il commissario Amílcar Mejía Rosales, capo della polizia a San Pedro Sula (si è appena trasferito da Tocoa, un dipartimento dove arrivano i maggiori quantitativi di droga dall’America meridionale e dove è in corso una lotta per la terra tra i contadini e le guardie dei proprietari terrieri), sostiene:
“L’Honduras è il paese dell’America Centrale più vulnerabile per il passaggio della droga dal sud al nord. Ed è facile capire mperché: i grandi narcotrafficanti pagano lo stoccaggio e il trasporto con la droga, non in contanti. E la lotta tra gli spacciatori locali per il controllo dei territori e dei mercati sta facendo aumentare gli omicidi”.
Da quando Carlos López è sparito, più di sedici mesi fa, a sua moglie torna sempre in
mente un dettaglio che ancora non si spiega: perché il commando che ha fatto irruzione in casa continuava a chiedere droga, armi e informazioni su una persona che chiaramente
non conoscevano e non avevano mai visto in faccia? Lei è convinta che a portarsi via Carlos siano stati dei poliziotti, per questo vuole che qualcuno le dica dove si trova suo marito, se è vivo o morto. Finora né la procura per i diritti umani dell’Honduras né la polizia si sono espresse sulle sparizioni di Carlos López, di Reynaldo Cruz e degli altri scomparsi.
Prima di salutarci, la madre e la figlia di Carlos mi portano in un terreno brullo a mezzo chilometro da casa loro. È uno spiazzo di circa venticinque metri quadri.
Attaccato agli alberi e avvolto intorno al filo spinato di un recinto, c’è un nastro giallo
con su scritto “non oltrepassare”. Proprio qui, tre giorni fa, la polizia ha trovato un cimitero clandestino. Ci dovrebbero essere almeno tre cadaveri sotterrati, presunte vittime della gang Barrio 18.
Mentre aspettiamo che arrivi l’autista che ci porterà via da Chamelecón, la madre domanda: “L’ambasciata degli Stati Uniti darà asilo a gente come noi?”. Ha paura che gli stessi uomini che hanno sequestrato il marito tornino a cercare anche loro. È preoccupata per sua figlia. Prima di partire, un pick-up della polizia si affianca alla nostra macchina. Arrivano dal cimitero clandestino.
Incrociamo lo sguardo degli agenti: sono seri. Gli occhi della bambina si riempiono di tutta la rabbia di cui è capace una dodicenne. “Eccoli, quei maledetti”, sussurra quando il pick-up è ormai lontano.


Da sapere:

-28 giugno 2009 Un colpo di stato dei militari destituisce il presidente Manuel Zelaya e lo costringe all’esilio in Costa Rica. Roberto Micheletti assume l’incarico di presidente ad interim.
-5 luglio 2009 L’Organizzazione degli stati americani sospende l’Honduras.
-21 settembre 2009 Zelaya torna in Honduras e si rifugia nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa.
-29 novembre 2009 Poririo Lobo Sosa, candidato del Partito nazionale
(conservatore) e sostenuto dai golpisti, viene eletto presidente.
-Gennaio 2010 Zelaya va in esilio nella Repubblica Dominicana.
-Maggio 2010 Una commissione della verità comincia a investigare sull’espulsione di Zelaya. La commissione stabilisce che si è trattato di un golpe.
-Dicembre 2011 Per affrontare l’aumento degli omicidi nel paese, il parlamento approva un provvedimento che concede all’esercito gli stessi poteri della polizia.
-Maggio 2012 Migliaia di persone protestano contro l’ondata di violenza nei confronti dei giornalisti. Negli ultimi tre anni ne sono stati uccisi più di venti.

(Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador)


Fonte: Internazionale 25 aprile/2 maggio 2013 N°997












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