martedì 18 dicembre 2012

Berlino vende armi a tutto il mondo (Der Spiegel)




La Germania ha sempre avuto politiche restrittive sull’esportazione di armi. 
Con Angela Merkel la situazione è cambiata. 
Oggi il paese fa affari con i regimi autoritari



Non è chiaro cosa piaccia agli arabi del nuovo carro armato da guerra Leopard 2. 
La sua affidabile canna liscia da 120 mm, che resta issa sul bersaglio anche quando il mastodonte da 68 tonnellate si sposta ad alta velocità nel deserto?
O i “generatori aggiuntivi dalla potenza maggiorata per le operazioni di check point”? 
Di sicuro gli esperti di armi in Arabia Saudita e in Qatar apprezzano il fatto che il nuovo Leopard abbia l’aria condizionata. Chi vorrebbe vedere i suoi soldati arrostirsi in mezzo al deserto, dove le temperature estive possono superare i 50 gradi?
A luglio l’azienda produttrice Krauss-Mafei Wegmann, di Monaco, ha inviato una delle sue armi miracolose nel deserto saudita per collaudare il Leopard 2 in condizioni estreme. 
Il ministro della difesa tedesco ha mandato sul campo un funzionario della bundeswehr, le forze armate, perché garantisse la sicurezza durante il collaudo del cannone in dotazione al carro armato.
Il successo del collaudo in pieno deserto non è passato inosservato. Il governo del Qatar vuole acquistare duecento carri armati,un affare che potrebbe fruttare fino a due miliardi di euro. 
I sauditi sono già dei  clienti affezionati. L’estate scorsa il governo tedesco ha risposto positivamente alla loro richiesta di acquistare 270 carri armati Leopard 2. Ma oggi Riyad vuole di più. Gli sceicchi hanno chiesto l’approvazione del governo tedesco per l’acquisto di qualche centinaio di mezzi di trasporto corazzati Boxer.

A fine novembre il consiglio di sicurezza federale della Germania ha preso in considerazione la richiesta. Il governo non ha ancora deciso nulla su questo affare, che potrebbe valere miliardi di euro. Le armi hi-tech tedesche sono molto richieste dai potentati arabi e da altri regimi autoritari, da quando si sono resi conto che il governo di coalizione tra i cristianodemocratici della cancelliera Angela Merkel e il Partito liberaldemocratico (Fdp) ha allentato i vincoli imposti in precedenza all’esportazione delle armi.
L’ultimo rapporto ufficiale sulle esportazioni degli equipaggiamenti militari, pubblicato nel  2011, mostra un mercato in pieno boom grazie ai permessi per le esportazioni rilasciati dal governo, per la prima volta superiori a dieci miliardi di euro. 
Il 42 per cento di queste armi è destinato ai cosiddetti paesi terzi, fuori della Nato o dell’Unione europea.  Nel 2010 la cifra non superava il 29 per cento. 

I numeri indicano che la dottrina Merkel comincia ad avere i suoi effetti. Secondo la cancelliera, solo in casi di estrema emergenza la Germania può inviare truppe nelle zone di conflitto. Bisogna rafforzare i “paesi partner” nelle aree di conlitto attraverso l’esportazione di armi, mettendoli in condizione di mantenere da soli la pace e la sicurezza. È una strategia rischiosa e una presa di distanza dalla tradizionale politica estera tedesca. “Anche con il senno di poi, le restrizioni imposte da Berlino alle sue politiche di esportazione di armamenti si sono rivelate l’approccio più giusto, e non dovremmo abbandonarle”, sostiene Hans-Dietrich Genscher (Fdp), che è stato a lungo ministro degli esteri.

Le armi più costose spesso continuano a essere usate per decenni. Il Leopard 2 è stato creato negli anni settanta e le sue prime versioni sono ancora in uso in molti paesi. Il rischio che questi armamenti possano finire nelle mani sbagliate è alto: la primavera araba ha dimostrato l’instabilità di molti regimi.
Però la cancelliera tedesca, che sostiene 
di fondare la sua politica sui valori della democrazia, acconsente a vendere le armi a regimi che non rispettano i diritti umani.
L’organismo al cui interno emergono queste contraddizioni è il consiglio di sicurezza federale, che s’incontra in segreto e a intervalli irregolari nella piccola sala conferenze della cancelleria. Il 26 novembre 2012 Merkel ha aperto uno di questi incontri. 
Il ministro degli esteri, Guido Westerwelle, e il ministro dello sviluppo, Dirk Niebel, hanno fatto un resoconto della situazione in Mali, il paese dell’Africa occidentale spaccato a metà dopo il colpo di stato organizzato dai militari la scorsa primavera.
Poi è venuto il turno di Gerhard Schindler, presidente del Bundesnachrichtendienst (Bnd), l’agenzia d’intelligence per l’estero, che ha tirato fuori una cartellina piena di diapositive e cartine. Secondo Schindler, la situazione in Mali è difficile: molti soldati leali al governo
hanno disertato e l’esercito è incapace di opporsi agli islamisti che controllano il nord del paese.
“Il Mali settentrionale sta diventando un’area ospitale per il terrorismo”. Al termine della presentazione di Schindler, sembra che la cancelliera abbia esclamato: “Che posto di merda”.
Dopo aver discusso il primo punto all’ordine del giorno, il presidente del Bnd e il coordinatore dei rapporti tra la cancelleria e i servizi lasciano sempre la sala. Quando arriva il momento di parlare degli accordi per l’esportazione di armi, la cancelliera e gli altri otto membri permanenti del governo (i ministri degli esteri, delle inanze, della difesa, dell’economia, dell’interno, dello sviluppo e della giustizia, più il capo dello staff di Angela Merkel) preferiscono escludere gli altri funzionari dalle discussioni. 
Le bozze contengono informazioni di massima sugli accordi che sono stati approvati o su quelli respinti. Il 26 novembre si è parlato di Medio Oriente. Proteggere la sicurezza di Israele è “parte della ragion d’essere del mio paese”, aveva dichiarato Merkel nel marzo del 2008. “Da cancelliera tedesca posso dire che la sicurezza di Israele non sarà mai oggetto
di negoziati”, aveva aggiunto. Il risultato parziale di queste dichiarazioni è che
Israele ottiene dalla Germania sottomarini nucleari e qualsiasi altra arma desideri. 
Questa volta Israele vuole i lanciagranate e le armi anticorazza più moderne della
Dynamit Nobel Defence, che ha i suoi impianti vicino a Siegen. 
Nei messaggi pubblicitari l’azienda sottolinea che i suoi lanciarazzi possono essere usati a distanza ravvicinata e in spazi ridotti, due qualità per l’impiego contro Hamas nella
Striscia di Gaza. Le richieste di Israele erano nell’agenda del consiglio di sicurezza federale già a giugno. Ma in quell’occasione il ministro degli esteri e il ministro per la cooperazione economica e lo sviluppo avevano espresso dei dubbi sull’opportunità di esportare delle armi per la guerra urbana in una zona a rischio di combattimenti.
Il 26 novembre 
Merkel e i suoi ministri hanno approvato la richiesta di Tel Aviv. 
La Germania deve sostenere Israele “ora più che mai”, ha spiegato uno dei ministri, perché Hamas è una minaccia seria.
La seconda richiesta era più delicata. I sauditi vogliono comprare i mezzi di trasporto
corazzati Boxer, coprodotti dalla Krauss-Mafei Wegmann. Il Boxer è uno dei veicoli da guerra più moderni del mondo. Può essere dotato di una stazione per armi telecomandate o trasformato in una sala operatoria mobile. La bundeswehr usa il Boxer in Afghanistan per il trasporto delle truppe. Ai sauditi serve per la guardia reale, che protegge la monarchia. I tre battaglioni di fanteria che compongono la guardia reale sono equipaggiati con armi leggere e veicoli corazzati. Con l’aggiunta dei Boxer, la guardia avrebbe a disposizione i migliori veicoli sul mercato.
I Boxer sono adatti anche a reprimere eventuali rivolte, grazie ai pneumatici che ne rendono possibile l’uso su strada. Se la primavera araba arrivasse in Arabia Saudita, la guardia reale sarebbe quasi sicuramente coinvolta. 
In uno scenario simile, le unità fedeli alla monarchia potrebbero scontrarsi con i manifestanti usando i carri armati di Berlino.

L’affare dei Boxer può essere redditizio per l’industria bellica tedesca, ma le aziende interessate dovranno aspettare: Angela Merkel e i suoi ministri non hanno preso nessuna decisione, rinviando tutto al 2013.
Oltre all’Arabia Saudita, gli altri grandi importatori di armi dalla Germania sono gli Emirati Arabi Uniti (Eau). 
Negli ultimi tre anni il governo di Angela Merkel ha approvato la vendita di armi agli Eau per un valore di 1,2 miliardi di euro. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar non sono gli unici beneiciari del cambiamento di rotta a Berlino. Anche se il governo non ha ancora diffuso i dati ufficiali, le garanzie approvate nel 2012 dall’agenzia di credito all’esportazione Hermes per sostenere gli accordi sull’esportazione di armi sono un buon indicatore della forza del settore. A fine novembre erano stateemesse sei garanzie, per un totale di 3,3 miliardi di euro. Inoltre queste garanzie sono state emesse per gli accordi stipulati con paesi situati in zone calde del mondo. 
Il principale destinatario è l’Algeria, seguita dall’Egitto, da Israele, dall’Indonesia, dall’Iraq e dal Pakistan. Le garanzie emesse per l’Egitto (700 milioni di euro) e per Israele (405 milioni di euro) sono delicate: in entrambi i casi dovrebbero proteggere l’acquisto di sottomarini costruiti dalla Hdw nella città di Kiel. 
sottomarini destinati all’Egitto, che non sono così sofisticati come quelli per Israele,
hanno innescato un conflitto tra la cancelliera tedesca e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, intenzionato a bloccare l’acquisto egiziano. 
La questione non è stata ancora risolta, ma il presidente egiziano, Mohammed Morsi, potrebbe ricevere presto due sottomarini nuovi di zecca.
Il caso egiziano dimostra che la dottrina Merkel è un programma su vasta scala per sostenere l’industria bellica nazionale. I paesi occidentali stanno riducendo le spese militari e anche le forze armate hanno dovuto fare dei tagli.
All’industria bellica tedesca, che impiega circa ottantamila persone, restano due possibilità: ridimensionarsi adattandosi al declino nella domanda o sviluppare nuovi mercati. 
Questi nuovi mercati, però, coprono aree del pianeta dove dittatori combattono tra di loro, regimi d’ispirazione religiosa finanziano organizzazioni terroristiche e 26 Internazionale 979 | 14 dicembre 2012 autocrati usano la violenza per opprimere i loro popoli. 
I mercati che crescono più rapidamente si trovano in Medio Oriente e tra le economie emergenti del sudest asiatico e  dell’America Latina.
Se paragonata alla Francia o al Regno Unito, la Germania impone ancora dei vincoli alla promozione della sua industria bellica.
L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato un vero e proprio sostenitore dell’industria bellica nazionale. Aveva promesso all’India, potenza nucleare emergente, un accordo che prevedeva la vendita di tecnologia nucleare come bonus in cambio dell’acquisto di aerei da combattimento francesi. Adesso il governo di Angela Merkel sta allentando i suoi vincoli nel settore della vendita di armi: “In Germania aumenta il sostegno politico all’idea che la riduzione delle spese militari debba essere compensata con un aumento delle esportazioni
di armi”, ha dichiarato Mark Bromley, dello Stokholm international peace research
institute (Sipri). Merkel sfrutta anche i suoi viaggi all’estero. In Angola ha oferto al presidente José Eduardo dos Santos la possibilità di una collaborazione energetica, ma gli ha
fatto presente che molte piattaforme petrolifere offshore sono poco protette. “Vorremmo
aiutarvi nel settore della difesa, potenziando la vostra marina militare”, ha detto Merkel in una conferenza a Luanda. Si riferiva alla vendita di pattugliatori per la guardia costiera angolana, il cui costo varia dai 10 ai 25 milioni di euro. hanno partecipato alla Fiera internazionale della difesa (Idex) di Abu Dhabi nel 2011.

Una era guidata dal vice ispettore generale delle forze armate, l’altra dal capo del dipartimento per gli armamenti del ministero della difesa. L’evento è considerato l’appuntamento più importante per l’industria bellica. Il Rheinmetall group, una delle 66 aziende tedesche che partecipavano alla fiera, ha presentato il suo ultimo carro armato, definito la “rivoluzione dei carri armati da combattimento”.
Anche la bundeswehr sostiene l’industria bellica con gli equipaggiamenti in dismissione, soprattutto i Leopard 2. Prima ne aveva più di 2.100 unità, oggi ne ha venduti all’estero 1.233. Nel mondo post guerra fredda, alla Germania non servono più di 225 carri armati. Prima di impacchettarli e spedirli alle loro nuove destinazioni, i Leopard vengono rimessi a nuovo dalle aziende produttrici, che guadagnano più di quanto ricavi la difesa dalla vendita dei suoi armamenti usati. 
Il Cile riceverà 172 carri armati, per i quali pagherà alle forze armate tedesche 46 milioni di euro. La Turchia ha ricevuto 354 carri armati, equipaggiati con una tecnologia da combattimento nuova per un valore di 289 milioni di euro. Angela Merkel sa che le esportazioni di armi non sono popolari. Agli elettori non piace che regimi autoritari come quello saudita usino le armi della Germania per restare al potere. 
La spiegazione ufficiale – la vendita di armi serve a salvare posti di lavoro – non ha presa sull’opinione pubblica. Eppure la cancelliera va dritta per la suam strada. Ha esposto per la prima volta il suom progetto a settembre. Due mesi dopo l’ha presentato a una conferenza per alti funzionari della difesa a Stausberg, vicino Berlino. 
Merkel ha dichiarato che l’Unione europea e la Nato dipendono da altri paesi, soprattutto quelli emergenti, che in futuro dovranno assumersi più responsabilità. “Credo che sia nostro interesse mettere i nostri collaboratori nelle condizioni di partecipare in modo efficace al mantenimento o alla riaffermazione della sicurezza e della pace nelle loro regioni”.
I funzionari della difesa e gli esperti di sicurezza presenti sapevano di cosa stava parlando: il governo deve fornire armi alle regioni a rischio di conflitto, come il Medio Oriente e il sudest asiatico, che le useranno per assicurare pace e stabilità. Dal punto di vista della cancelleria, questa dottrina risolverebbe due problemi. Da un lato giustificherebbe l’esportazione di armi nella penisola araba, a lungo ritenuta a rischio; dall’altro, fornirebbe al governo un’ulteriore giustificazione per la sua riluttanza a lasciarsi coinvolgere nei conflitti all’estero. 
Merkel non vuole assumersi la responsabilità di altre missioni militari. Ai suoi occhi l’Afghanistan è la dimostrazione del fallimento a cui vanno incontro gli interventi nei paesi stranieri. È più efficace e meno pericoloso dare sostegno militare a

strategico è l’Algeria. Il paese confina con il Mali e la Libia, e dovrebbe fare da testa di ponte nella lotta contro i terroristi islamici. I servizi algerini si sono iniltrati nell’organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e anche gli Stati Uniti vorrebbero usare l’ex colonia francese come base per le loro azioni di controterrorismo. Non è un caso se l’Algeria è diventata un beneficiario sempre più importante delle esportazioni tedesche, collocandosi all’ottavo posto nel 2011. 
Due grosse aziende hanno avuto un ruolo di primo piano nel potenziamento degli armamenti algerini. Il paese ha ordinato navi da guerra alla Thyssen Krupp Marine Systems, mentre la Rheinmetall, con sede a Düsseldorf, sta costruendo una nuova fabbrica per produrre veicoli Fuchs.
L’Algeria ha da poco lanciato un’altra grossa esca sul mercato internazionale: un contratto da 1,5 miliardi di dollari per un moderno sistema di controllo dei confini destinato alla frontiera con il Mali, martoriato dalla guerra civile.
Con ogni probabilità il progetto susciterà l’interesse della compagnia di difesa europea Eads, che sta realizzando un sistema simile in Arabia Saudita. Il governo tedesco partecipa fornendo addestratori per le guardie di confine saudite.
Ma un partner strategico può diventare in poco tempo imprevedibile, come dimostra l’Egitto. Nel 2011 il Cairo ha sottoposto a Berlino una richiesta ufficiale per l’acquisto di due sottomarini dalla Hdw di Kiel. Gli egiziani non erano interessati ai sottomarini nucleari classe Dolphin che la Germania fornisce a Israele, ma a due unità di classe 209, meno sofisticata dal punto di vista tecnico. 
All’inizio l’accordo sembrava redditizio e facile. I funzionari del ministero della difesa tedesco avevano informato il ministro della difesa israeliano, e la cancelliera aveva chiamato il premier israeliano. Non c’erano state obiezioni. Ma da allora la situazione è cambiata. Il nuovo presidente egiziano, Mohammed Morsi, viene dai Fratelli musulmani e ha legami con Hamas. Il suo partito ha redatto una bozza di costituzione che, come quella in vigore all’epoca di Hosni Mubarak, pone la sharia alla base di qualsiasi altra legge. 
Tel Aviv non considera più gli egiziani degli alleati affidabili e l’affare dei sottomarini è diventato un problema.
Netanyahu ha chiesto di cancellare l’accordo. Irritata dall’improvviso voltafaccia israeliano,
la cancelleria ha dato la sua disponibilità a rivedere la decisione. Durante il
 ertice del 26 novembre, Westerwelle ha dichiarato che Berlino non dovrebbe far dipendere la sua posizione da Israele. Non importa quale sarà la decisione della Germania: allontanerà comunque un importante socio nella regione, sia Israele o l’Egitto.
La fornitura di armi tedesche agli Emirati Arabi Uniti è stata meno complicata. Berlino sostiene che il paese deve rafforzarsi militarmente contro l’Iran. Con un simile sostegno politico, non c’è da stupirsi che gli Eau siano diventati uno dei clienti preferiti dell’industria bellica della Germania. 
La Rheinmetall ha in programma di costruire entro il 2014 un moderno centro di addestramento per combattimenti con sistemi informatici e laser negli Emirati Arabi Uniti
he dovrebbe generare introiti per più di cento milioni di dollari. Appena il centro entrerà in funzione, le forze armate del paese avranno un livello di competenza nelle tecniche di combattimento con sistemi informatici e laser paragonabile a quello della bundeswehr. Berlino esita a promuovere attivamente la sua nuova linea politica. La cancelliera e i suoi consiglieri sono convinti che sarebbe meglio spiegare le linee generali della nuova dottrina sulla sicurezza e anche il ministro della difesa, Thomas de Maizière, è a favore di un approccio più coraggioso. Ma né Angela Merkel né il suo ministro della difesa sono scesi nei dettagli. Entrambi insistono nel dire che la maggior parte delle decisioni prese nel consiglio di sicurezza federale è segreta. Il governo non commenterà l’invio dei carri armati in Arabia Saudita.

Se dipendesse dal ministro degli esteri Westerwelle, il governo dovrebbe limitarsi a dire delle banalità sull’argomento. Lui fa il possibile per rafforzare la sua immagine di
sostenitore del disarmo. Dopo la rielezione di Barack Obama, ha dichiarato: “Spero che faremo passi avanti sulla via del disarmo e della non proliferazione nucleare”. Ma quando l’opinione pubblica si distrae, promuove l’industria bellica tedesca. 
L’invio di armi in Arabia Saudita è un grosso problema per Merkel, perché nessun diplomatico occidentale sa di preciso quanto
sia stabile la situazione nel paese. Il governo, che secondo gli standard occidentali è fondamentalista, è minacciato da forze ancora più estremiste. Se la situazione degenerasse, i carri armati e le altre armi tedesche rischierebbero di finire nelle mani di un movimento radicalmente antioccidentale.
C’è già un precedente nella regione. Per decenni il regime iraniano filoccidentale dello scià Mohammad Reza Pahlavi fu sostenuto dagli Stati Uniti. Nel 1979, quando la rivoluzione iraniana cacciò lo scià, le armi americane finirono nelle mani degli ayatollah, che oggi considerano Washington il loro peggiore nemico.



Fonte: Internazionale N°979, 14/20 dicembre 2012.






La principessa incinta: una fiaba tra privilegi e iniquità (Laurie Penny)





Quando è stato dato l’annuncio ufficiale che l’utero della duchessa di Cambridge era occupato, il primo ministro britannico David Cameron si è detto “entusiasta”.
E ci credo. La notizia non poteva arrivare in un momento migliore. L’informazione sulla Gloriosa Ingravidazione della Magica Vagina di successione monarchica ha opportunamente
scalzato dalle prime pagine lo stato pietoso della nostra economia e ha distolto l’attenzione dal casino che ha investito la stampa britannica dopo la conclusione dell’inchiesta Leveson. Adesso ci toccano mesi di ipotesi sul nome del neonato e di studio del pancione. 
La Casa dei Windsor è diventata l’ennesima telenovela, anziché un’istituzione che non smette di confiscare i pieni diritti democratici agli altri 70 milioni di umani che abitano quest’isoletta piovosa. Ma non fa niente: i bebè sono tanto carini e dobbiamo augurare ogni bene alla Coppia Reale. Altrimenti…
Perfino i repubblicani più convinti si sentono obbligati a esprimere la loro felicità per i futuri genitori coronati. 
Ecco cosa ci si aspetta che diciamo tutti in coro: quanto siamo contenti per il principe e la sua bella principessa, così giovani e innamorati, e ora in attesa di un pupo. 
E allora io mi sbilancio e dichiaro di far parte delle molte migliaia di persone che non hanno provato particolari emozioni sentendo la notizia. Quei due non li conosco
e probabilmente non li conoscerò mai di persona. Al pari di tanti di noi, so solo cosa rappresentano, e cioè il potere e il privilegio, e i mille modi in cui si autogiustificano a forza di parate e di bandiere. 
Quando penso a William e a Kate, e a quanto ci si chiede di essere felici per loro, non posso fare a meno di pensare a un’altra giovane coppia che conosco.  
Sono due miei amici, più o meno coetanei dei reali, e abitano sull’altra sponda del fiume, a pochi chilometri di distanza.
All’inizio dell’anno sono stata al loro matrimonio da fiaba. E a modo suo, un modo molto qualunque, si tratta davvero di una fiaba. I due si sono conosciuti su una chat quando erano ancora adolescenti, una decina di anni fa. Si sono innamorati, hanno attraversato il paese per stare insieme, ma erano troppo giovani perché la cosa funzionasse, si sono separati e hanno perso i contatti. Poi, dieci anni dopo, si sono ritrovati grazie ad amici comuni, ed è stato come se il tempo non fosse mai passato: sono andati a vivere insieme, si sono fidanzati.
Adesso vorrebbero avere un bambino. E invece non possono. Solo perché lui fa il turno di notte e lei frequenta corsi per adulti a tempo pieno. Malgrado lavorino tanto, dalla fine della luna di miele si sono visti poco e non possono permettersi un appartamento grande
abbastanza per tre. I sussidi sugli alloggi sono stati tagliati, e quindi non sanno quando, anzi se, potranno permettersi di avere dei figli.
Poi c’è un’altra giovane coppia di mia conoscenza. Anche loro sono poco più giovani del principe William e della duchessa di Cambridge. Si sono conosciuti al college, si sono innamorati, volevano sposarsi e avere figli. Ma lei sofriva di una disabilità fisica dolorosa, che
si è aggravata quanto più ha lavorato per mettere su casa insieme. Lui l’ha vista sbattersi, come altri milioni di persone, per ottenere la pensione di invalidità. Ha visto la sua autostima
lentamente sgretolata dalla fatica massacrante di tirar fuori tutti i documenti che il nuovo sistema punitivo di welfare pretende dai malati che fanno domanda per i sussidi. Ogni volta che ci provava le andava male, ed è scivolata nella depressione e poi nella disperazione.
A volte le giovani coppie riescono a sopravvivere a queste difficoltà. Loro due invece si sono lasciati. È una storia che quest’anno non fa che ripetersi, in tutto il paese: gli attori cambiano ma il soggetto, arido, anzi tragico, resta lo stesso. 
Sono le storie d’amore che non si vedono, quelle in cui la povertà, i rigidi inverni urbani e l’ingiustizia mortiicante della vita nel Regno Unito moderno si frappongono fra tante ragazze e i loro principi o principesse azzurre. 
Perché la verità è che in questo paese le fiabe sono sempre più rare. Non lasciatevi ingannare
dallo sventolio delle bandiere e dalle grida di giubilo: questo sta diventando un paese più freddo e più cattivo, ed è diventato più difficile che mai proteggere il proprio amore, anche se dovrebbe essere una forza capace di sconfiggere perfino l’appartenenza di classe.
L’anno prossimo nel Regno Unito nasceranno circa750mila bambini. Almeno 250mila nasceranno in famiglie povere. Cresceranno senza avere idea di come potersi permettere un’istruzione, una casa e le altre cose che perino i loro genitori in una certa misura davano
per scontate. Questi bambini e i loro genitori passeranno i prossimi vent’anni a guardare, sulle pagine dei quotidiani, un piccoletto come loro crescere fra lussi e privilegi inimmaginabili. 
La lezione è: stattene al tuo posto, non dimenticare mai a che ceto sociale appartieni e quali sono i suoi limiti, mettiti bene in testa chi è che comanda. 
Malgrado tutto quello che potrete leggere sulla stampa internazionale, qui oggi le fiabe sono merce sempre più rara.



(Laurie Penny è una giornalista britannica. 
È columnist del settimanale New Statesman  e collabora con il Guardian)

Fonte: Internazionale N° 979, 14/20 2012

lunedì 17 dicembre 2012

Nobel per la pace all'UE: un premio controverso (Internazionale)




Il 10 dicembre si è svolta a Oslo la cerimonia di consegna del premio nobel per la pace all’Unione Europea. 
L’Ue era rappresentata da Herman Van Rompuy, José Manuel Barroso e Martin Schulz, rispettivamente presidenti del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europei. 
In platea c’erano i capi di stato e di governo di 22 dei 27 stati membri. Spiccava, per la
sua assenza, il premier britannico David Cameron. Probabilmente Cameron ha condiviso il
parere del Daily Telegraph, che ha definito il premio “assurdo”, sottolineando l’immobilismo
di Bruxelles durante il conlitto in Bosnia e le tensioni tra gli stati dell’Ue innescate dalla
crisi dell’euro. “Ancora una volta”, scrive il quotidiano conservatore, “viene evidenziato il distacco tra l’élite al potere a Bruxelles e i cittadini europei”. “La decisione di assegnare il Nobel all’Ue è controversa”, riconosce anche il quotidiano di Malmö Sydsvenskan, che ricorda le politiche neocoloniali adottate in Africa dalla Francia e dalla Germania, il motore storico della vecchia Comunità Economica Europea (Cee). Eppure, scrive il portoghese Diário de Notícias, “l’impegno di Parigi e Berlino per il progetto europeo ha reso molto più difficile arrivare ai malintesi che causarono due guerre mondiali”.

Fonte: Internazionale N°979, 14/20 dicembre 2012

Berlusconi: campagna elettorale con l’alibi della Germania (Süddeutsche Zeitung)




Silvio Berlusconi ha accusato il presidente del consiglio Mario Monti di aver seguito la politica germanocentrica che l’Europa ha cercato di imporre all’Italia e agli altri paesi.
Durante una telefonata a un programma di Canale 5, Berlusconi ha aggiunto: “Purtroppo il governo Monti ha portato a una situazione di crisi molto diversa e molto peggiore di quella in cui ci trovavamo quando ancora eravamo noi al governo”.
Ha poi aggiunto che quando era lui il presidente del consiglio si è sempre opposto alle pretese della Germania.
Berlusconi ha anche detto che Berlino ha approfittato della crisi finanziaria a spese di altri paesi perché il tasso d’interesse sui suoi titoli di stato si è ridotto. E inoltre ha definito esagerata la preoccupazione degli italiani riguardo alla differenza tra la rendita dei titoli di stato nazionali e quella dei titoli di stato tedeschi. “Ma a noi che ci importa dello spread? È un imbroglio,
un’invenzione. Di spread non si è mai sentito parlare se non da un anno a questa parte”,
ha aggiunto.
Il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle ha messo in guardia Berlusconi dall’idea di fare una campagna elettorale antitedesca: “Una cosa non accetteremo: che la Germania sia fatta oggetto di una campagna elettorale populista.  Le attuali difficoltà dell’Italia non sono state causate né dalla Germania né dall’Europa”.
Westerwelle ha anche avvertito i partiti italiani di non interrompere il processo di riforma avviato dal presidente del consiglio Monti, altrimenti le turbolenze potrebbero investire l’intera Europa. 
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato di avere fiducia nel fatto che l’Italia continuerà a fare le riforme. Merkel ha detto di avere appoggiato le misure del governo Monti, e che anche gli investitori hanno ritrovato la fiducia nell’Italia. Ha poi aggiunto che gli italiani “sceglieranno in modo da garantire che il paese resti sulla strada giusta”.
Monti ha respinto le critiche del suo predecessore, Silvio Berlusconi, e ha difeso le scelte politiche del suo governo. Le ricette semplici, ha detto, non risolveranno i problemi dell’Italia.
Inoltre ha messo in guardia da promesse elettorali irrealistiche. “C’è la tendenza a presentare soluzioni magiche ai cittadini per seguire i loro istinti viscerali e non per proporre un programma per il futuro”, ha detto.

(Süddeutsche Zeitung, Germania)

Fonte: Internazionale N°979, 14/20 dicembre 2012

domenica 16 dicembre 2012

Berlusconi l'antieuropeo (El País)




Mentre l’Unione europea celebrava a Oslo il suo scintillante premio Nobel per la pace, Silvio Berlusconi faceva tremare tutti, annunciando di voler ritirare l’appoggio del suo partito al governo tecnico di Mario Monti, e di volersi candidare alle prossime elezioni per tornare a guidare il paese. Le parole di Berlusconi hanno suscitato forti dubbi sull’Italia e sul futuro dell’euro, causando anche un aumento dello spread spagnolo. A questo punto è facile immaginare che Berlusconi farà una campagna dal sapore populista e antieuropeo.
Secondo i sondaggi l’ex premier non ha molte possibilità di vincere, ma probabilmente riuscirà a contaminare di nuovo la politica italiana ed europea. La mossa servirà a Berlusconi come ennesimo scudo dai processi e impedirà l’approvazione di alcune leggi pensate per aiutare l’economia e la politica italiane. 
Durante il suo mandato, Monti è riuscito a restituire peso e credibilità ma a questo punto è
diventato chiaro che il suo governo era tenuto a galla solo perché i partiti non volevano pagare il prezzo politico delle necessarie ma impopolari misure di austerità. 
Finisce così prima del tempo la stagione del governo tecnico, segnata soprattutto dalla depressione in campo economico.
Ora l’Italia si prepara a scegliere il suo futuro tornando alle urne. Le elezioni sono previste per febbraio, e l’iniziativa di Berlusconi porta nuove incognite. Il candidato del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, che
già si vedeva a capo del prossimo governo, dovrà impegnarsi al massimo. Monti dal canto suo non ha ancora fatto sapere se si presenterà alle elezioni con una sua lista di centro. Probabilmente dovrebbe.
L’Europa trema. La storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa, scriveva Karl Marx. Nel caso di Berlusconi siamo al terzo atto. Le conseguenze, al momento, si profilano dannose per tutti.

(El País, Spagna)

Fonte: Internazionale N°979, 14/20 dicembre 2012


Se l'Europa resta senza Monti (The New York Times)





Nell’ultimo anno il presidente del consiglio italiano Mario Monti – serio, con gli occhiali, più a suo agio a un seminario che nella fossa dei leoni della politica italiana – ha silenziosamente ricostruito il prestigio dell’Italia nella diplomazia europea e la credibilità del paese sui mercati finanziari. Per questo quando ha annunciato di voler lasciare il suo incarico alla guida della terza economia dell’eurozona, molti si sono chiesti con  se l’Italia sarebbe tornata alle cattive abitudini del passato.
Bisogna ricordare che il governo di Mario Monti, raffinato professore universitario ed ex commissario europeo per la concorrenza, non è stato scelto dagli elettori e che lui ha sempre dichiarato di voler rimanere in carica solo fino alle elezioni legislative, inizialmente previste per la primavera del 2013, ma molto probabilmente destinate a svolgersi a febbraio.
Nell’anno trascorso alla guida dell’Italia, Monti ha avviato delle riforme economiche ed è riuscito a calmare il nervosismo dei mercati inanziari, anche grazie all’aiuto di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea (Bce), che quest’estate si è impegnato ad attenuare il peso del debito dei paesi dell’eurozona accettando di comprare i loro titoli di stato in quantità illimitate in caso di necessità. Finora la promessa di Draghi è bastata a fermare la corsa al rialzo dei tassi d’interesse dei titoli di stato italiani e spagnoli.
Oggi il tasso d’interesse sui titoli pubblici decennali italiani, che all’inizio del 2012 aveva superato il 7 per cento, è fermo al 4,5 per cento. Questo non signiica che i problemi finanziari ed economici dell’Italia siano
magicamente scomparsi. Il paese continua a vacillare sotto il peso di un debito pubblico che si aggira intorno al 125 per cento del pil, ha gravi problemi di competitività e di disoccupazione giovanile e, secondo le previsioni, la sua economia continuerà a con Mario Monti annuncia le sue dimissioni da presidente del consiglio, Silvio Berlusconi dice di volersi candidare di nuovo. Ma non c’è da temere un ritorno al passato: nell’ultimo anno l’Italia è cambiata e ha ripreso il suo posto in Europa Visti dagli altri Internazionale 979 | 14 dicembre 2012 15 trarsi sia quest’anno sia nel 2013.
Le competenze di Monti in materia di economia e la sua esperienza politica europea l’hanno reso un interlocutore importante per la Casa Bianca, con cui ha mantenuto un ilo diretto. Inoltre si è alleato con Francia e Spagna per strappare alcune concessioni sull’eurozona alla riluttante cancelliera tedesca Angela Merkel. “Monti ha dato il via a una svolta nella vita politica italiana e ha avuto un forte impatto in Europa”, spiega Thomas Klau, direttore della sede parigina dell’European council on foreign relations. “Ha contribuito a far tornare l’Italia un paese serio agli occhi sia degli investitori stranieri sia dei suoi cittadini”.
Uno dei motivi per cui Monti è stato accolto così favorevolmente è il contrasto tra la sua leadership e quella del predecessore, Silvio Berlusconi, che di recente ha annunciato il suo ritorno in politica. Berlusconi, l’esuberante miliardario e imprenditore dei mezzi d’informazione particolarmente incline agli scandali, non è mai andato d’accordo con i leader più potenti dell’Unione neuropea, in particolare con Angela Merkel, che guida il paese più influente dell’eurozona. Nel 2011 i giornali italiani hanno pubblicato alcune intercettazioni in
cui Berlusconi parlava di Merkel in termini sessisti e offensivi. I leader europei erano abituati alle sue pagliacciate. Durante un vertice estivo nel 2003 il Cavaliere invitò tutti i presenti a “parlare di calcio e di donne” proponendo che ad avviare la conversazione fosse l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder,
che si era sposato quattro volte. Ma la crisi dell’euro ha alzato la posta in gioco. Nel 2011, poco dopo che la Banca centrale europea era intervenuta a favore dell’Italia comprando i suoi titoli pubblici, è sembrato che Berlusconi volesse tirarsi indietro dagli impegni presi in cambio dell’aiuto esterno. In seguito, durante un
vertice, alla domanda se bisognasse credere alle promesse di Berlusconi, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy (che all’epoca era ancora presidente francese) hanno fatto un sorrisetto ironico, mettendo in evidenza che ormai nemmeno loro lo prendevano più sul serio.
A differenza di Berlusconi, l’esperto e autorevole Monti – in grado di parlare bene in inglese e in francese – si muove con naturalezza nei circoli di Bruxelles. Sostenitore di un rigore di bilancio di impronta tedesca, Monti è definito da Klau “un italiano molto prussiano”.
Le riforme economiche di Monti, tra cui alcuni provvedimenti per ridurre il deicit e
favorire le imprese, hanno permesso alla Banca centrale europea di usare in modo più aggressivo le sue risorse inanziarie per aiutare l’Italia e gli altri paesi in crisi. A partire dal dicembre del 2011, per esempio, la
Bce ha permesso alle banche europee di prendere in prestito il denaro di cui avevano bisogno per tre anni al tasso di riferimento della banca centrale (oggi è 0,75 per cento, il più basso della storia dell’eurozona).
In questo modo le banche hanno ottenuto circa mille miliardi di euro, e quelle italiane hanno fatto un ricorso consistente ai prestiti. È probabile che l’infusione di liquidità abbia scongiurato una pesante stretta del credito in Italia e in altri paesi, ma difficilmente la Bce avrebbe rischiato tutto questo denaro scommettendo
sull’economia italiana se Berlusconi fosse stato ancora a capo del governo. Draghi ha evitato di commentare pubblicamente l’operato di Monti e di qualsiasi altro capo di governo, ma l’affinità tra i due è evidente.
Sono due economisti italiani che hanno fatto carriera nel settore pubblico ed entrambi hanno lavorato per la banca d’affari Goldman Sachs. Hanno in comune anche il soprannome: Super Mario.
Per il prossimo presidente del consiglio italiano sarà difficile essere all’altezza di Monti, ma è anche vero che la situazione del paese è meno grave rispetto a un anno fa. “È estremamente improbabile che assisteremo al ritorno al potere di Berlusconi”, commenta Klau, “quindi anche se Monti dovesse abbandonare per sempre la politica, l’Italia non tornerà alla situazione di prima del suo arrivo”. Innanzitutto c’è da tenere conto che l’impegno della Bce ad acquistare i titoli di stato è “un evento rivoluzionario, il più importante sviluppo nel mercato dei bond dell’eurozona dall’inizio della crisi”, spiega Nicholas Spiro, direttore della società di consulenza finanziaria Spiro Sovereign Strategy di Londra. Secondo la maggior parte degli analisti, anche nel caso di un aumento dei costi di finanziamento dell’Italia è diicile che il piano di Draghi sia sospeso a breve termine. Inoltre bisogna ricordare che Monti è 16 Internazionale 979 | 14 dicembre 2012 riuscito, insieme al presidente francese François Hollande, a convincere la Germania ad ammorbidire la sua posizione intransigente sull’austerità di bilancio e a scongiurare il rischio di anni di stagnazione economica per l’eurozona. Gli ottimisti sottolineano che l’incertezza politica in Italia potrebbe perfino avere un effetto positivo e spingere i leader europei a bilanciare la situazione prendendo importanti decisioni per eliminare alcune delle debolezze strutturali della moneta unica.
La storia recente, infatti, dimostra che la mancanza di pressione da parte dei mercati spinge i politici a rinviare le decisioni impopolari. In questo senso un pizzico di instabilità potrebbe incoraggiarli a uscire dall’impasse che ha colpito il progetto dell’unione bancaria.
In ogni caso la probabile uscita di scena di Monti è una battuta d’arresto per l’Europa, che perderà una figura autorevole, e per l’Italia, che con l’attuale capo del governo ha avuto un potere senza precedenti. Inoltre l’addio di Monti toglierà alle economie dell’Europa del sud – tra cui la Spagna, il Portogallo e la Grecia – un leader di grande credibilità.
“Anche se non ci sono motivi per pensare che la sua uscita di scena causerà caos e instabilità, è comunque una cattiva notizia”, sostiene Klau. “Monti è un interlocutore competente, di grande autorità morale e intellettuale in quel piccolo e informale gruppo di politici che manovrano le leve del
potere”.

(Castle e Ewing, The New York Times, Stati Uniti)

Fonte: Internazionale N°979, 14/20 dicembre 2012