sabato 12 gennaio 2013

L’Italia somiglia al terzo mondo (Barbie Latza Nadeau)




L’Italia avrà anche un ricco patrimonio culturale e la settima economia del mondo, ma le sue statistiche sociali sono più in linea con quelle di un paese in via di sviluppo.
Non raggiunge la sufficienza in settori che vanno dai diritti delle donne all’occupazione giovanile. 
Il paese è in recessione, ma non è solo un problema di soldi. 
Da quando Mario Monti è diventato premier la situazione economica dell’Italia è migliorata costantemente, ma nonostante questo il paese ha ricevuto molte critiche.
Secondo la relazione annuale dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), il tasso di disoccupazione più alto è tra i lavoratori sotto ai 24 anni, dove tocca il 36,5 per cento (in questa fascia di età oltre un milione di
persone è senza lavoro). Sorprendentemente, chi è laureato ha molte più probabilità di essere disoccupato rispetto a chi ha lasciato la scuola o non ha mai frequentato le superiori. Chi non ha una laurea è più disponibile a lavorare senza un contratto o in settori non qualificati. 
Le donne se la passano peggio degli uomini: guadagnano in media il 15 per cento in meno e hanno più difficoltà a trovare un impiego. Nelle regioni meridionali sei donne su dieci sono escluse dal mercato del lavoro. Inoltre, molte di loro vivono in contesti familiari dove rischiano la vita. 
Nel 2012 più di 120 donne italiane sono state uccise in episodi di violenza domestica, in media un omicidio ogni tre giorni. 
Il consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha messo in guardia l’Italia sulla necessità di inserire il problema della violenza domestica nell’agenda politica nazionale, eppure sono rare le iniziative politiche per richiamare l’attenzione sul problema.
Anche gli indicatori sulla qualità della vita lasciano a desiderare: il 72,4 per cento delle famiglie vive in case di proprietà, però solo il 56 per cento delle famiglie italiane ha un computer. 
Purtroppo il futuro non sembra roseo. Nel 2011 le iscrizioni all’università e alle scuole superiori sono calate. Il tasso di abbandono della scuola superiore è il quarto più elevato in Europa, pari al 18,8 per cento. E chi riesce a entrare all’universitàspesso non finisce gli studi. 
Secondo i dati dell’Istat, solo il 56 per cento degli studenti si laurea. Anche per gli stranieri che vivono in Italia la situazione è critica.
A dicembre Amnesty international ha condannato l’Italia per quello che ha definito un “diffuso” sfruttamento razzista degli immigrati. In media gli immigrati sono pagati il 40 per cento in meno degli italiani, quando sono pagati. In tutto il paese si registrano situazioni di servitù a contratto, dove i migranti lavorano per pagarsi vitto e alloggio, costretti spesso a vivere in condizioni disumane. Molti sono entrati in Italia illegalmente, per questo motivo non chiedono aiuto alla polizia o non vanno in ospedale quando sono malati o infortunati. 
Amnesty international stima che sono mezzo milione gli stranieri che vivono illegalmente in Italia. “Gli immigrati in Italia sono una componente essenziale della popolazione, come forza lavoro e anche fonte di energia vitale per una società che invecchia”, ha detto il presidente della repubblica Giorgio
Napolitano commentando la relazione. “Ma c’è ancora molto lavoro da fare per rendere la vita migliore”, ha aggiunto.
Il cambiamento arriverà, ma non garantirà un miglioramento. L’Italia è senza un leader eletto dal novembre 2011, da quando Silvio Berlusconi si è dimesso e Mario Monti ha ricevuto l’incarico di governare il
 aese. Gli italiani voteranno a febbraio per eleggere un nuovo parlamento, ma è improbabile che i dati sul tenore di vita saranno al centro del dibattito, visto che per ora solo gli statistici hanno parlato del problema.


(Barbie Latza Nadeau, Newsweek, Stati Uniti)

Fonte: Internazionale N°982, 11/17 gennaio

Campi di lavoro cinesi (South China Morning Post, Hong Kong)




Definire la rieducazione per mezzo del lavoro un oltraggio allo stato di diritto è un eufemismo. In realtà è una grottesca perversione dello stato di diritto, usata dalla polizia cinese perino per rinchiudere imputati giudicati innocenti dai tribunali.
Le pressioni a favore dell’abolizione dei campi di lavoro, esercitate da anni all’estero e all’interno della Cina, non hanno impedito abusi ancor più scandalosi ai danni di piccoli delinquenti, oppositori e di cittadini che hanno osato presentare petizioni di protesta.
Nessuno quindi era preparato al recente annuncio fatto alla conferenza nazionale sull’ordine pubblico di Pechino: il sistema dei campi di rieducazione per mezzo del lavoro, nato cinquantacinque anni fa con Mao Zedong, sarà presto abolito.
È una svolta signiicativa, che arriva a meno di due mesi dalla nomina di Xi Jinping a segretario generale del Partito comunista cinese e dal suo impegno a difendere lo stato di diritto e ad arginare gli abusi di potere. 
La cronaca della conferenza, pubblicata dall’agenzia di stampa governativa Xinhua, annuncia riforme in quattro settori: i campi di lavoro, il sistema delle petizioni, i poteri dell’apparato giudiziario e la hukou, cioè la legge sulla registrazione dei nuclei familiari, che oggi nega i diritti sociali ai migranti rurali, ed è quindi il più grande ostacolo alla modernizzazione nel più vasto fenomeno d’inurbamento della storia. 
Il messaggio è chiaro: la nuova dirigenza cinese vuole promuovere lo stato di diritto. Oggi le autorità comunali o provinciali possono far rinchiudere un cittadino in un campo di lavoro per un massimo di quattro anni senza processo. E usano quest’arma anche contro i militanti delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, non solo contro i dissidenti.
La fine di questo sistema, e non solo la sua riforma, sarà una bella notizia… se si realizzerà. Per Xi Jinping sarà un test politico, perché comporta mettersi contro certi interessi locali. Alcuni osservatori hanno sottolineato che il termine ufficiale usato è stato “sospendere” e non “abolire”. Restano le dichiarazioni del segretario del partito, Xi Jinping, secondo cui debellare la corruzione dei funzionari è una delle sue massime priorità. 
Un buon punto di partenza sono proprio le azioni illegali commesse dai tutori dell’ordine.


Fonte: Internazionale N°982, 11/17 gennaio

Un calcio al razzismo (The Guardian, Regno Unito)




In meno di 48 ore, nel mondo del calcio europeo sono avvenuti due eventi eccezionali, uno in campo e uno fuori. Il 3 gennaio il giocatore del Milan Kevin-Prince Boateng ha chiesto ai compagni d’interrompere la partita per protesta contro i ripetuti insulti razzisti da parte di un gruppo di tifosi della squadra avversaria.
E, finora, non è stata pronunciata una parola di critica contro di lui né contro la squadra né contro i dirigenti. Il calcio italiano si è vergognato di se stesso. E anche quello britannico dovrebbe farlo.
In passato un giocatore che avesse reagito alle provocazioni razziste lanciando la palla tra la folla, come ha fatto Boateng prima di allontanarsi, sarebbe stato criticato.
Quando nell’ottobre del 2012 il giocatore della squadra inglese under 21 Danny Rose lo ha fatto durante una partita contro la Serbia, è stato mandato fuori subito, aggiungendo un nuovo episodio alla lunga storia di accettazione dell’inaccettabile.
Le autorità europee sono notoriamente tenere con le squadre che hanno tifosi razzisti e fanno multe spesso solo simboliche. Questa volta, invece, la Federazione italiana gioco calcio non ha neanche parlato di punizioni. Sia la Figc sia la Uefa hanno taciuto.
È difficile immaginare un’arma più efficace contro i tifosi scorretti che privarli della partita che sono andati a vedere. Ma quell’arma, che ormai fa parte dell’arsenale ufficiale contro i comportamenti violenti, non è stata ancora usata contro i cori razzisti intonati su molti campi. Le federazioni fanno tanti bei discorsi, ma non li sostengono con gesti che potrebbero eliminare certi comportamenti in campo e fuori. Prendono tempo,
ma ormai non ne è rimasto molto.
La crisi economica ha accentuato le divisioni all’interno della società. La retorica politica comincia a usare certi gruppi come capri espiatori, e in tempi difficili è facile mettere le persone le une contro le altre. Nonostante gli scandali, il calcio ha ancora un ruolo importante nello stabilire e norme culturali. E in questo senso, la mancanza di una decisa condanna ufficiale del razzismo è una vergogna.
Il Milan ci ha insegnato che l’arma migliore contro l’inerzia delle istituzioni è la solidarietà.

Fonte: Internazionale N°982, 11/17 gennaio

sabato 5 gennaio 2013

Il monopolio è un furto (Christopher Ketcham)




A Monopoli vince chi si accaparra le proprietà più redditizie. Ma in origine il gioco da tavolo più famoso del mondo voleva insegnare a combattere i monopolisti.

(...) 
Secondo la versione ufficiale raccontata dalla Hasbro, titolare del marchio, il Monopoli fu inventato nel 1933 da un radiatorista disoccupato e dog sitter a ore di Filadelfia, Charles Darrow. 
Darrow voleva inventare un gioco ispirato all’acquisto e alla vendita di terreni, e diede alle varie proprietà dei nomi presi in prestito da Atlantic City, la città di mare dove andava in vacanza da bambino. 
Brevettato nel 1935 da lui e dalla Parker Brothers che lo realizzò, nei primi due anni di produzione il gioco vendette più di due milioni di copie, rendendo ricco Darrow e probabilmente salvando dal fallimento la Parker Brothers. In seguito è diventato il gioco da tavolo brevettato più venduto nel mondo. 
(...)
La letteratura ufficiale non ha mai citato le vere origini del gioco.
Trent’anni prima che Darrow lo brevettasse, nel 1903, un’attrice del Maryland di nome Lizzie Magie aveva creato un protoMonopoli come strumento per diffondere la filosoia di Henry George, uno scrittore dell’ottocento convinto che nessun individuo potesse rivendicare la “proprietà” della terra. 
Nel suo libro Progress and poverty (1879) George deiniva il concetto di proprietà fondiaria “sbagliato e pericoloso” e sosteneva che a possedere la terra dovesse essere la società come “soggetto collettivo”.
(...) 
In quella prima edizione, le proprietà più costose da comprare, e le più convenienti da possedere, erano strade famose di New York come Broadway, Fifth avenue e Wall street. Al posto del “Via” c’era un riquadro con la scritta “Lavorare la madre terra produce salario”. 
Il meccanismo era quello del Monopoli: tutti i partecipanti si indebitavano e prima o poi fallivano, tranne uno, il supermonopolista, che alla fine vinceva. 
Ma i giocatori potevano prendere un’iniziativa che non è prevista dalle regole del Monopoli di oggi: decidere di collaborare. Non avrebbero pagato l’affitto a un singolo proprietario, ma avrebbero messo la somma in una cassa comune e, come scrisse Magie, “tutti si sarebbero garantiti la prosperità”.
(...) 
Henry George non aveva studiato economia.A 16 anni era stato assunto come mozzo
e aveva lasciato Filadelia a bordo del mercantile Hindoo, diretto verso l’Australia e l’India. In viaggio aveva assistito a un tentativo di ammutinamento a causa delle terribili condizioni di lavoro dei marinai. A vent’anni, ormai trapiantato in California, lavorava come apprendista tipografo, pesatore di riso e bracciante a ore. Poco dopo si sposò, ma rimase senza lavoro a causa della crisi dell’occupazione che colpì la costa occidentale.
Nell’inverno del 1865 sua moglie era incinta e moriva di fame. “Non perdete tempo a lavarlo”, disse il dottore a George quando a gennaio nacque il bambino. “Dategli da mangiare”. La povertà lo portò a interessarsi di economia, a riflettere sul perché fosse tanto diffusa in un paese così ricco di risorse. A sua volta, questo lo spinse a rivolgersi ai giornali, che immaginava potessero pagarlo per le sue idee. 
E alla fine il giornalismo lo portò a  New York.
Quello che sconcertava George era che dovunque venissero introdotti mezzi di produzione più avanzati – dovunque fiorissero industrie e si accumulassero capitali – c’erano sempre più persone povere che vivevano in condizioni disperate. Per lui era un paradosso incomprensibile. “È l’enigma che la Sfinge del Fato pone alla nostra civiltà e se non troveremo la risposta saremo annientati”, scriveva. “Finché tutta la ricchezza creata dal progresso
moderno servirà solo a costruire grandi patrimoni quel progresso non sarà reale e non potrà essere duraturo”. 
Nel 1879 pubblicò il libro che lo avrebbe reso famoso, Progress and poverty, che forniva una risposta radicale all’enigma: il motivo per cui il progresso portava una maggiore povertà era il monopolio sulla terra.
Negli Stati Uniti, con il progredire della civiltà, l’aumento della popolazione e l’inurbamento, i terreni avevano cominciato a scarseggiare, il loro prezzo era salito e la maggioranza che doveva viverci e lavorarci era costretta a pagare quel prezzo alla minoranza che li possedeva. Per la classe lavoratrice, la conseguenza era la schiavitù dell’affitto. “Per vedere esseri umani che vivono nelle condizioni più abiette e disperate”, scriveva George, “non bisogna andare nelle sconfinate praterie e nelle capanne di legno costruite nei boschi, dove l’uomo comincia la sua lotta con la natura e la terra non vale ancora nulla, ma nelle grandi città, dove la proprietà di un piccolo appezzamento di terreno costituisce una fortuna”.
(...)
Da quei piccoli appezzamenti, soprattutto a New York, erano nate le dinastie de nuovi ricchi americani.
(...)
Secondo George, l’accumulo di terreni in mani private era il prodotto di un sistema di proprietà “artificiale e infondato quanto il diritto divino dei re”. “Sia dal punto di vista storico sia da quello etico”, scriveva, “la proprietà privata della terra è un furto. Ha sempre avuto origine dalle guerre e dalle conquiste”. Quello era, in realtà, il peccato originale della civiltà occidentale. George osservava che molte civiltà premoderne non riconoscevano il diritto di proprietà sulla terra. 
Un uomo possedeva solo l’arco e le frecce che aveva costruito con le sue mani, non la terra sulla quale cacciava. Un simile diritto non esisteva nemmeno nel Vecchio testamento, che “trattava la terra come un dono del Creatore alle sue creature”.
Dopotutto, Mosè aveva istituito il giubileo: ogni cinquant’anni la terra veniva ridistribuita e i debiti contratti su di essa venivano cancellati, una tradizione alla quale avevano messo ine i romani. 
Negli annali del mondo precapitalistico, George aveva riscontrato ovunque “il conflitto tra l’idea che tutti hanno gli stessi diritti sulla terra e la tendenza a monopolizzarla trasformandola in proprietà privata”.
Ma nell’ottocento il “preconcetto” della “proprietà individuale della terra”, raforzato dal complesso insieme di diritti e titoli concessi dallo stato, era diventato la base del sistema legale statunitense. Secondo George, non poteva e non doveva essere eliminato. La conisca delle terre e la nazionalizzazione avrebbero portato alla tirannia. “Lasciamo che gli individui che oggi ne godono mantengano, se vogliono, il possesso di quelle che amano chiamare le loro terre”. 
George non pensava che fosse necessario abolire il diritto di comprare e vendere una proprietà o di lasciarla in eredità ai propri discendenti. Sosteneva piuttosto che la società avrebbe dovuto lasciare ai possidenti “il guscio” delle loro terre e prenderne “il frutto”. Scriveva: “Non è necessario confiscare le terre, basterebbe confiscarne la rendita. In questo modo lo stato diventerebbe in pratica padrone di tutte le terre senza esserlo formalmente”.
Quello che contava era la rendita. 
In linea con l’economia classica di Adam Smith, George deiniva rendita il reddito da capitale derivato unicamente dall’aumento di valore della terra, e quindi distinto dal lavoro investito su di essa sotto forma di migliorie, costruzione di case, uici e fabbriche o coltivazione di campi. A valorizzare la terra era la mano invisibile del lavoro di una comunità. La capanna diventava preziosa quando veniva scoperta una miniera nella zona, costruita una strada principale che la collegava alla miniera, aperto un negozio che vendeva provviste per i minatori, quando venivano costruite altre case, arrivava la ferrovia e nasceva una città. Il terreno su cui sorgeva la capanna derivava il suo valore da quello che la società ci aveva costruito intorno. Quindi quell’aumento di valore spettava alla società, e secondo George doveva essere calcolato e tassato a prezzo di mercato. 
Questa “tassa unica” sulla terra e sulle risorse naturali era un modo per riformare il capitalismo, che George pensava di dover salvare dall’autodistruzione, e “aprire la strada alla realizzazione del nobile sogno socialista”. 
I ricchi proprietari terrieri dell’epoca accusarono il georgismo di essere la teoria più folle ed estremista dei suoi tempi, e consideravano l’idea della tassa unica più pericolosa di tutti gli scritti di Karl Marx messi insieme. La chiesa cattolica deinì il pensiero di George “degno di condanna”. 
Tuttavia, a cinque anni dalla pubblicazione di Progress and poverty centinaia di migliaia di statunitensi sarebbero arrivati a credere nel vangelo della tassa unica. A New York, il prete populista Edward McGlynn deiniva George “un profeta, un messaggero di Dio”. Mark Twain e il filosofo John Dewey erano georgisti. 
Lev Tolstoj sosteneva che George aveva “inaugurato una nuova era”. “Il metodo per risolvere il problema della terra è stato elaborato da Henry George a un tale livello di perfezione che, con l’organizzazione dello stato e il sistema di tassazione obbligatoria attuali, è impossibile concepire una soluzione migliore, più giusta, pratica e pacifica”, scriveva Tolstoj.
“L’unica cosa che placherebbe il popolo in questo momento sarebbe l’introduzione del sistema di Henry George”.
Nel 1886 lo United labor party (Ulp), appena uscito dalle battaglie della prima Festa del lavoro, scelse George come candidato per la carica di sindaco di New York.
La campagna elettorale fu estremamente radicale per l’epoca: dovunque le ferrovie,
i telegrafi, i telefoni, e le forniture di gas, elettricità e acqua potevano funzionare in
modo più efficiente in un’economia di scala,  come “monopoli naturali”, sarebbero stati di proprietà pubblica. A New York i trasporti sarebbero stati gratuiti e l’amministrazione
comunale si sarebbe fatta carico dei servizi sociali. George avrebbe messo fine al lavoro minorile e imposto la giornata lavorativa di otto ore. 
Il suo programma sarebbe stato inanziato dalla tassa sul valore della terra. Anche se nessuno dei gran di giornali lo appoggiò, furono fondati circoli a suo nome in 24 distretti della città. 
Gli iscritti inanziarono la campagna elettorale contribuendo ognuno con 25 centesimi. 
La coalizione che si formò intorno all’Ulp superava le divisioni di classe, etnia e religione che dominavano a New York. Tre giorni prima delle elezioni, i suoi sostenitori si raccolsero a migliaia nella zona sud di Manhattan portando striscioni con la scritta:
“I lavoratori onesti contro i proprietari terrieri ladri”, e a Tompkins square, sotto la pioggia battente, intonarono slogan come “Abbasso le sanguisughe”. Ma George fu sconfitto, e ci furono anche sospetti di brogli Henry George tornò al giornalismo, tenne conferenze, scrisse altri cinque libri e si dedicò alla diffusione del vangelo della tassa unica. 
Ebbe anche il merito di ispirare tutta una generazione di riformatori progressisti.
Ma dimostrava poco interesse per tutte le riforme che non fossero la tassa unica.
Fedele alle teorie di Adam Smith fino alla ine, attaccò i socialisti e i sindacalisti che
 erano i suoi maggiori sostenitori e, come scrisse un suo critico, si mise alla testa di un gruppo di sostenitori della tassa unica caratterizzati da “uno spirito insopportabilmente dogmatico e dottrinario”.
Non accettò mai che il reddito da capitale provenisse da investimenti che non fossero sulla terra, e di conseguenza fu accusato di non voler prendere atto del crescente potere del capitalismo finanziario, che creava ricchezza grazie al valore attribuito dalla società a titoli e azioni.
Alla sua morte, nel 1897, quando centomila newyorchesi fecero la fila per rendere onore alla sua salma, la “grande idea” di George, come avrebbe scritto con rimpianto Tolstoj nel 1908, aveva già imboccato la lunga strada dell’oblio.
(...)


Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

(Christopher Ketcham, Harper’s, Stati Uniti)

La partitocrazia italiana e i movimenti (Manuel Castells)




La partitocrazia è una malattia senile della democrazia. 
Un caso di scuola è quello dell’Italia, un paese straordinariamente creativo nell’arte e nell’industria, con una cultura che è alla base del pensiero occidentale, dove però la società è stata maltrattata da una classe politica rapace e da un sistema dei partiti che ha ipotecato la democrazia a favore di una casta. 
L’ultima vergognosa bufonata di Silvio Berlusconi non è insolita nel teatrino politico italiano. Prima Berlusconi ha ritirato l’appoggio a Monti, l’onesto professore che sta mettendo ordine nella quarta economia europea. Monti, ovviamente, ha annunciato le dimissioni: si voterà a
febbraio. Berlusconi allora si è candidato, con una piattaforma antieuropea e populista che allarma Berlino, Bruxelles e Washington. Di fronte all’ostilità dei conservatori europei e con il rischio di perdere, il Cavaliere si è rimangiato la parola: ha promesso di sostenere Monti
se accetterà di guidare i “moderati” e ha chiesto anche il sostegno della Lega nord, minacciando di farle perdere il governo di Veneto e Piemonte. Monti lo ha ignorato e la situazione rimane incerta.
Niente di nuovo per l’Italia. Nel 1992 lo scandalo di Tangentopoli mise fine all’egemonia democristiana e socialista denunciando la corruzione dei partiti (un po’ meno di quello comunista), portando al riiuto della classe politica, al naufragio dei socialisti di Bettino Craxi (che si rifugiò in Tunisia) e alla graduale trasformazione degli eurocomunisti nel Partito democratico (Pd).
Il paradosso è che da quella rigenerazione causata da giudici progressisti è venuto fuori Berlusconi (amico di Craxi e dei socialisti). Nonostante i sospetti di legami con la mafia su cui la magistratura lavora da anni, nell’immaginario politico degli italiani Berlusconi ha
trionfato incarnando l’antipolitica. Il nome del suo partito, Forza Italia, faceva pensare alla nazionale di calcio e il suo potere televisivo gli ha garantito il monopolio di un messaggio semplicistico da imprenditore (non politico) che divertiva la maggioranza degli uomini con
battute sessiste sulle donne.
Di fronte allo stupore del mondo, la maggioranza degli italiani ha continuato a votare Berlusconi, che ha gestito a suo piacimento le alleanze garantendo favori e immunità ai corrotti e a se stesso prima di tutto. Alla fine tra le pressioni dei mercati, dei governi europei,
delle donne e dei nuovi movimenti sociali, Berlusconi è caduto. Il Pd è diventato la principale forza politica e il primo partito nei sondaggi. Ma molti italiani, soprattutto le donne e i giovani, continuano a non fidarsi dei partiti tradizionali e, liberi dal fascino esercitato dal grottesco berlusconismo, si sono messi in movimento.
O, per meglio dire, nei movimenti, con una pluralità di forme e manifestazioni che hanno cercato di intervenire subito sulla scena politica. 
L’esempio più eclatante è il Movimento 5 stelle guidato da Beppe Grillo, che ino a poco tempo fa aveva il 20 per cento di consensi nei sondaggi. È un partito che funziona soprattutto su internet, non fa propaganda in tv, propone l’uscita dall’euro, critica radicalmente il sistema
parlamentare attuale e propone una severa regolamentazione del mondo finanziario. 
Beppe Grillo era un comico televisivo il cui sarcasmo contro la casta si è fatto sempre più caustico ino a essere escluso dai canali tv pubblici e privati. Si è alleato con il pubblicitario Gianroberto Casaleggio per trovare nuove strategie di comunicazione, e ha sfruttato la sua popolarità per fare campagne a favore dell’ecologia e contro la corruzione. Il suo blog è diventato una piattaforma politica. Ha lanciato un’iniziativa per cambiare il sistema elettorale, e in vista delle nuove elezioni legislative ha organizzato le primarie del Movimento
5 stelle con 1.400 candidati via internet. 
Sono degli illusi? Molti italiani, soprattutto i giovani, prendono più sul serio Grillo dei partiti tradizionali. Alle ultime regionali e comunali il Movimento ha riscosso grandi successi, entrando in centinaia di amministrazioni locali, conquistando Parma e diventando il primo partito in Sicilia (dove il 28 ottobre nell’impero dell’omofobia e della criminalità è stato eletto governatore Rosario Crocetta, gay dichiarato e militante
antimafia).
Il successo di Beppe Grillo è stato oscurato dalle critiche al suo autoritarismo per l’espulsione di due consiglieri del movimento in Emilia-Romagna: un gesto che gli è costato il 5 per cento dei consensi. Eppure il grillismo sta cambiando la scena politica italiana, insieme al movimento degli “arancioni”, che riunisce i sindaci progressisti di Milano (Giuliano Pisapia) e di Napoli (Luigi De Magistris) eletti con il sostegno della società civile e gli attivisti antimafia come il magistrato Antonio Ingroia. 
All’orizzonte c’è un’alleanza critica con il Pd. Per non essere da meno, il Pd ha deciso di organizzare primarie dirette tra i cittadini per scegliere i candidati. E così l’Italia, che ha toccato il fondo nella decadenza partitocratica, è anche il paese in cui nascono forme embrionali di rifondazione della democrazia, a partire dai movimenti sociali. 

(Manuel Castells è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California)

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

Venti di secessione (In These Times, Stati Uniti)




Le spinte secessioniste tornano regolarmente a farsi sentire negli Stati Uniti. 
Sono un capriccio passeggero o indicano una tendenza politica profonda? 
Dopo la rielezione di Barack Obama migliaia di persone hanno firmato petizioni per chiedere la separazione del loro stato dalla repubblica federale. In Texas, Louisiana e Florida è ben radicato un movimento separatista reazionario che accusa Washington di attuare politiche marxiste e di sottrarre risorse ai singoli stati. Ma la spinta secessionista viene anche dai progressisti, convinti che nelle realtà piccole sia più facile esercitare la democrazia diretta e sperimentare politiche innovative, e dai pacifisti che puntano a smantellare l’apparato militare nazionale. È improbabile che il governo degli Stati Uniti, che pure si è schierato a favore di movimenti secessionisti in varie parti del mondo, acconsenta alla separazione di uno stato rischiando di scatenare un vortice di forze centrifughe. Ma lo spirito secessionista, secondo In These Times, può contribuire a migliorare il sistema federale, proponendo modelli politici più vicini alle esigenze dei cittadini.

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

La tensione tra Mosca e Washington è ai livelli di guardia (The Moscow Times)




Sergej Magnitskij era un avvocato russo che lavorava per la hermitage Capital Management, un fondo di investimenti britannico attivo in Russia. Dopo aver denunciato una truffa organizzata con la copertura di alcuni funzionari della polizia ai danni della hermitage, nel novembre 2008 è stato arrestato con l’accusa di frode fiscale. Il 16 novembre 2009, ancora in custodia cautelare, è morto per un arresto cardiaco legato a una pancreatite non curata. Secondo l’ong Moscow helsinki Group in carcere Magnitskij sarebbe stato torturato. La sua morte ha suscitato sdegno e critiche a livello internazionale. nel giugno del 2012 il congresso statunitense ha approvato una legge, il cosiddetto Magnitskij bill, con cui si vieta a un gruppo di sessanta funzionari russi coinvolti nella morte dell’avvocato di entrare negli Stati Uniti e
servirsi del sistema bancario americano. 
La legge è stata approvata dal senato il 6 dicembre e firmata dal presidente Obama il 14. Mosca ha reagito definendola un “atto ostile” e mettendo in cantiere ritorsioni dello stesso tenore.


La cosa migliore che le autorità avrebbero potuto fare per evitare questa situazione sarebbe stata condurre un’inchiesta seria sulla morte di Magnitskij. Se anche solo alcune delle figure coinvolte fossero state oggetto di indagini adeguate e tempestive, la Russia avrebbe evitato l’approvazione della legge Magnitskij, facendo anche capire ai suoi funzionari che non possono compromettere gli interessi nazionali e macchiare la reputazione del paese con le loro azioni. Ma il Cremlino si è messo in un angolo con le proprie mani. E intervenire ora sembrerebbe un cedimento alle pressioni degli Stati Uniti. La reazione di Mosca mette in evidenza
una delle sue maggiori debolezze: un radicato senso di insicurezza. 
Bisogna essere convinti delle proprie posizioni per accettare le critiche. La Russia ha ragione a insistere ainché gli Stati Uniti e l’Europa rispettino la sua dignità, ma questo non vuol dire che il paese può ignorare i suoi obblighi, in particolare quelli stabiliti dalle convenzioni internazionali sulla corruzione, i diritti umani e il riciclaggio di denaro.
Il Cremlino, però, su un aspetto ha ragione: la legge Magnitskij costituisce un’ingerenza
controproducente negli affari interni del paese, e gli Stati Uniti appaiono mossi dall’intenzione di umiliare pubblicamente la Russia, che difficilmente poteva rimanere in silenzio di fronte a questa provocazione.
A questo punto il Cremlino dovrebbe tenere una posizione critica ma con toni diplomatici e moderati. Può insistere sui princìpi della giurisprudenza e del mutuo rispetto internazionale. Ma la retorica isterica e l’aggressività avranno efetti opposti a quelli sperati. 
Il Cremlino può anche essere convinto della necessità di adottare una posizione che soddisfi l’opinione pubblica interna, ma i costi di una scelta simile
possono essere maggiori dei suoi benefici.
Un’indagine approfondita sulla morte di Magnitskij è l’unica reale soluzione al problema.
Ed è anche la migliore linea da seguire per gli interessi a lungo termine del paese e la sua reputazione globale.



(Mark Nuckols, The Moscow Times, Russia)

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

Il peggior paese per le donne



Lo stupro di una studentessa di 23 anni da parte di un gruppo di uomini a bordo di un autobus a New Delhi il 17 dicembre ha sollevato molte polemiche sulla sicurezza delle donne nella capitale.
La vittima è in gravi condizioni e quattro stupratori, incluso l’autista dell’autobus, sono stati arrestati. La polizia sta cercando altri due uomini. Il 18 dicembre l’opposizione in parlamento ha chiesto al governo spiegazioni sull’insicurezza dilagante a New Delhi e un’azione decisa per migliorare la situazione.
Il 19 dicembre in varie città indiane ci sono state manifestazioni.
Nel 2012 l’India è stata definita il peggior paese per le donne. “Il problema”, scrive Tehelka, “è come le donne sono viste nel paese”.

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

La scelta di immolarsi (iSun Affairs, Hong Kong)




Dal 2009 sono almeno 95 i tibetani che si sono dati fuoco in segno di protesta. “Le immolazioni sono parte
di un movimento secessionista”, recita una nota congiunta della procura suprema, della corte suprema e del ministero della sicurezza di Pechino. 
Il governo cinese parla di “forze straniere ostili” che tramano contro la Cina, mentre per il governo tibetano in esilio le immolazioni sono il grido di libertà di un popolo oppresso. entrambi riconoscono la natura politica delle immolazioni, scrive iSunAfairs. 
È un cambio di strategia del governo rispetto alla sua posizione iniziale, che riduceva le immolazioni ai gesti di persone instabili. Una strategia usata spesso contro chi protesta. 
L’altra tecnica è criminalizzarne i comportamenti. Come accadde nel 2009, quando una donna a Chengdu si diede fuoco per protesta contro un esproprio. Le autorità attribuirono il gesto ai rapporti difficili con il marito, suscitando l’indignazione dei cinesi, spiega Chang Ping nell’editoriale. Le immolazioni dei tibetani, però, non sollevano la stessa indignazione a causa dell’educazione patriottica ricevuta dai cinesi.

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

Il trionfo dei preservativi (Asia Sentinel)





"L’approvazione della legge sulla salute riproduttiva è la più grande vittoria del presidente Benigno Aquino nei suoi due anni e mezzo di mandato", scrive Asia Sentinel. In base alla legge, oggetto di una feroce
guerra durata quattordici anni da parte della conferenza episcopale filippina, le strutture sanitarie pubbliche dovranno fornire i contraccettivi e le informazioni sui metodi moderni di pianificazione familiare, e la salute riproduttiva dovrà essere materia di studio nelle scuole.
La norma è passata alla camera dei rappresentanti con 133 voti contro 79. Secondo il Fondo
delle Nazioni Unite per la popolazione, metà dei 3,4 milioni di gravidanze annuali nel paese è involontaria e un terzo termina con l’aborto, spesso clandestino. 
Solo il 23 per cento della popolazione usa gli anticoncezionali, e in genere sono le persone delle classi ricche. "La legge è solo il primo passo e la chiesa cattolica non si darà per vinta. Bisogna vedere quali ostacoli
saranno posti alla sua applicazione", conclude l'Asia Sentinel.

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

La super tassa di Hollande e la fuga di capitali (Le Monde)




Due secoli fa i nobili francesi sceglievano l’esilio 
per sfuggire alla ghigliottina. Altri tempi. 


Oggi i 
super ricchi scelgono l’esilio fiscale per sfuggire a 
tasse che considerano esose. Come Gérard Depardieu. 
Ed essendoci di mezzo questo monumento 
del cinema francese, il caso ha assunto 
proporzioni assurde. La sua scelta di trasferire la 
residenza in Belgio per pagare meno tasse ha scatenato 
uno psicodramma nazionale, forti polemiche 
e interventi del governo.

Sarebbe bene che tutti riflettessero sulle cause 
di questo psicodramma, che risalgono alla campagna 
elettorale per le presidenziali. 


Volendo dare 
un’impronta forte alla campagna e fare delle 
concessioni a sinistra, il socialista François Hollande 
ha proposto di tassare i redditi al 75 per cento 
per la parte che supera il milione di euro. Eccessiva

per la destra, questa percentuale è stata giustificata 
da un dovere di solidarietà, per risanare i 
disastrosi conti pubblici. Ma a quanto pare l’argomento non ha convinto i diretti interessati.
E in effetti i motivi non mancano. Da un lato la percentuale del 75 per cento sembra punitiva.
Se Hollande avesse voluto rispettare lo spirito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, per la quale i cittadini devono contribuire all’imposta “in base alle loro facoltà”, avrebbe imposto due, tre o quattro scaglioni supplementari per arrivare se necessario al 75 per cento.
Inoltre ci si rende conto che la fiscalità in un solo paese è inefficace nell’epoca della globalizzazione e della libera circolazione dei cittadini in Europa. Hollande rischia quindi di pagare il costo politico della sua decisione elettorale e di rimanere invischiato nella polemica.
L’aumento delle imposte è necessario e i più ricchi devono contribuire più degli altri. Ma la brutalità simbolica del 75 per cento finisce per cancellare del tutto questo messaggio.


Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

Il prezzo di una maglietta (Los Angeles Times)




Un incendio scoppiato il 24 novembre in una fabbrica di abbigliamento del Bangladesh ha ucciso 112 persone e ha spinto molti a porsi delle domande: come può un’azienda lavorare senza rispettare le norme di sicurezza? E che responsabilità hanno le aziende statunitensi verso i lavoratori di cui si servono in tutto il mondo? 
Al momento dell’incendio, la Tazreen Fashion stava fabbricando capi di abbigliamento per alcuni marchi americani come Disney, Walmart e altri, e per il corpo dei marines. Nella fabbrica non c’erano uscite d’emergenza, gli estintori non funzionavano e quando è suonato l’allarme i capi hanno sbarrato
l’uscita principale, ordinando a tutti di tornare al lavoro. Disney, Sears e Walmart hanno dichiarato che la Tazreen non era autorizzata a fabbricare i loro prodotti, ma lo faceva lo stesso. 
Ignorare non è una scusa accettabile. Se le aziende statunitensi insistono per avere i prodotti in tempi brevi e a costi stracciati senza fare controlli, spingono le fabbriche ad agire in modo pericoloso.
Negli ultimi sei anni almeno altri 300 operai sono morti in incendi nelle fabbriche di abbigliamento del Bangladesh. In altri paesi, chi fabbrica i capi destinati ai negozi statunitensi è costretto a lavorare senza paga e con orari estenuanti, esposto a sostanze tossiche e a volte letteralmente
imprigionati.
Molte multinazionali stanno tentando di migliorare la situazione, ricorrendo a istituti di ricerca non profit che si occupano di questioni ambientali e condizioni di lavoro. Ma in un mercato globale competitivo le aziende statunitensi considerano il corretto trattamento dei lavoratori come una questione secondaria. 
E anche se i consumatori sapessero quali merci prodotte all’estero sono state fabbricate in condizioni disumane, non è scontato che se ne preoccuperebbero.
Per garantire condizioni di lavoro dignitose, le aziende statunitensi devono capire che non basta un contratto in cui un’impresa si impegna a non subappaltare a ditte irresponsabili. Invece dei contratti e breve termine o una tantum con i fornitori, devono costruire rapporti prolungati con fabbriche responsabili. E la loro forza sarà nei numeri: se tutti i grandi marchi unissero le forze, sarebbero in condizione di chiedere ai governi
stranieri di imporre il rispetto delle leggi sulla sicurezza. Quanto costerebbe ai consumatori statunitensi comportarsi da cittadini responsabili? Non ci sono molti studi per stabilire se costerebbe un dollaro o solo 10 centesimi in più per una maglietta.
Ma bisogna essere disposti a pagare questa cifra ridicola per essere sicuri che un acquisto non abbia provocato sofferenze umane.

Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

martedì 1 gennaio 2013

Lettera ai miei allievi: oggi hanno bocciato il maestro! (Alex Corazzoli)




Cari allievi, oggi il vostro maestro è stato bocciato. Sì, avete letto bene: il Ministero della Pubblica istruzione, al Concorsone, mi hanno rimandato.
Il maestro, che ogni anno entra in classe insegnando storia, geografia, musica, educazione all’immagine, informatica, scienze, dopo aver passato un concorso e ottenuto l’abilitazione nel 1999, non ha passato il test di preselezione che è stato costretto a fare per tentare di non essere più precario.
Un personal computer, non una persona, in cinquanta minuti ha deciso che io non potrò continuare a essere il vostro maestro ogni anno ma sarò destinato ancora a girare come le giostre da un paese all’altro. Con me sono stati bocciati sei su dieci che hanno provato: su 22 persone che erano in aula con me solo 9 sono state promosse.
Volete sapere cosa mi hanno chiesto? No, non ho il coraggio di dirvelo, cari allievi.
Voi state immaginando domande sulla didattica, su come si trasmettono a voi la storia, la geografia, l’educazione civica. State immaginando che mi hanno “interrogato” per sapere come v’insegno a usare internet, la mail, i social network che il 74% di voi utilizza.No, nulla di tutto questo.
Mi hanno fatto un quiz, come quelli che fate voi quando vi costringono a fare i test dell’Invalsi più o meno. Per sapere se so fare il maestro mi hanno chiesto: “Pamela, Fiona e Gina, sono tre ragazze newyorkesi. Stanno prendendo il sole in una piscina della loro città. Pamela indossa un costume intero. Fiona legge un libro, Pamela e Gina sono cugine”. Dovevo indovinare la risposta esatta tra queste quattro:  “Fiona è una studentessa universitaria;  Pamela è grassa; a Roma non sono le 9 del mattino; Pamela e Fiona sono cugine”.
Lo so che state ridendo. Ma i vostri maestri oggi non hanno il sorriso. Dicono che si chiama logica, cari ragazzi.  Eppure domani dovrò tornare in classe in una scuola illogica.
Mi hanno bocciato ma per qualche mese servo ancora al signor ministro che avrei voluto vedere fare un test con me.Domattina tornerò tra voi, continueremo a leggere il quotidiano insieme, a imparare la Costituzione e la democrazia con i nostri consigli comunali di classe. Parleremo ancora di musica senza suonare il piffero ma ascoltando Fabrizio De Andrè e Giorgio Gaber.
Vi insegnerò scienze portandovi alla fiera del consumo critico a Milano. Cercherò di ascoltare ancora i problemi di quelli tra voi che hanno il papà e la mamma separati; di chi non riesce a studiare perché a casa non c’è nessuno che lo può aiutare visto che mamma e papà parlano poco l’italiano ma molto bene l’arabo.
No, non mi sono dimenticato: anche se non so bene rispondere al quiz di Fiona, Gina e Pamela; anche se la nostra Scuola italiana non ha soldi continuerò a organizzare il nostro viaggio d’istruzione al Parlamento a Roma o sui beni confiscati alla mafia in Sicilia, cercando soldi tra qualche imprenditore.
Andremo a Mirandola, a incontrare i bambini che vivono nei container: perché per noi parlare di Emilia è anche questo.
Non preoccupatevi, quel signore che si chiama Francesco Profumo, forse non ama veramente la scuola ma il vostro maestro prova ogni giorno ad amarla. Anche se è stato bocciato.

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/17/lettera-ai-miei-allievi-oggi-hanno-bocciato-maestro/448870/