Dalla fine di dicembre del 2012 gli abitanti della provincia di Anbar, in Iraq, manifestano contro il governo di Baghdad. Perché si sentono emarginati dalle autorità sciite.
Dieci anni fa, a Falluja, una semplice manifestazione segnò l’inizio dell’insurrezione che
avrebbe trasformato la guerra in Iraq in un incubo per gli Stati Uniti. Ed è sempre a Falluja che circa cento giorni fa è cominciata l’intifada dei sunniti.
Il 21 dicembre 2012 sono stati arrestati a Baghdad 120 guardie del corpo e uomini dello staf del ministro delle inanze Rai al Issawi, un sunnita. Al Issawi è sfuggito alla retata e si è nascosto a Falluja, la sua roccaforte.
Da allora gli abitanti della provincia di Anbar sono impegnati in una nuova lotta: quella che li oppone al premier Nuri al Maliki, incarnazione di un potere confiscato dagli sciiti e consegnato nelle mani dell’Iran.
Stanchi di essere additati come sostenitori di Saddam Hussein o di Al Qaeda, e di essere considerati dei paria, i sunniti sono i grandi perdenti del nuovo Iraq. Ogni venerdì nelle aree sunnite del paese scoppiano proteste. I manifestanti hanno perfino eretto degli accampamenti. L’autostrada che collega Baghdad alla Giordania è interrotta all’altezza di Ramadi e il venerdì centinaia di migliaia di persone si danno appuntamento lì all’ora della preghiera.
Il palco è coperto di slogan: “Il silenzio internazionale uccide”, “Gli Stati Uniti hanno regalato l’Iraq all’Iran e se ne sono andati”, “Settantamila sunniti sono rinchiusi nelle carceri
del governo”.
“Il nostro movimento è paciico, anche se il governo cerca di provocarci”, spiega Mejhem al Alwani, uno dei leader del movimento popolare di Ramadi.
Dopo uno scontro che ha causato otto morti a Falluja il 25 gennaio, l’esercito si è ritirato dalle città sunnite della provincia di Anbar. Ma la zona è sotto assedio, soprattutto di venerdì. Per la prima volta dalla caduta di Saddam, una parte del territorio iracheno è interdetta ai
giornalisti stranieri.
“Non vogliamo più essere trattati come cittadini di seconda classe”, afferma Al Alwani. “I nostri figli non possono lavorare nella giustizia, nella polizia o nell’esercito. La legge antiterrorismo prevede che i nostri uomini e le nostre donne possano essere arrestati anche solo per una denuncia anonima. I nostri politici sono screditati da false
accuse”.
Malgrado la volontà di coinvolgere gli oppositori sciiti del primo ministro, i toni confessionali del movimento popolare sunnita mspaventano la comunità sciita. Soprattutto quando alle manifestazioni appaiono ritratti di Saddam Hussein o le bandiere nere di Al Qaeda.
Al Maliki non ha mai smesso di agitare lo spauracchio dell’estremismo sunnita e di denunciare il sostegno della Turchia e del Qatar. Dopo la fuga di Al Issawi, la maggior parte dei ministri sunniti è uscita dal governo, con l’eccezione di due.
Uno di loro, Saleh al Mutlaq, all’inizio di gennaio è andato a Ramadi per mediare con i manifestanti. Ma, accusato di tradimento, ha corso il rischio di essere linciato.
I disordini hanno fornito ad Al Maliki il pretesto per sospendere le elezioni provinciali del 20 aprile nelle province di Anbar e di Ninive (la regione di Mosul), dove i suoi alleati sunniti sarebbero stati probabilmente sconitti. L’opposizione ha denunciato la manovra. Per Rai al Issawi, il “movimento popolare” potrebbe sfociare in una richiesta federalista dei sunniti dell’Iraq: “Se non possiamo vivere con gli altri, allora separiamoci”.
Altri, più pessimisti, temono una radicalizzazione del movimento.
(Christophe Ayad, Le Monde, Francia)
Da sapere:
Il 20 aprile in Iraq si svolgono le elezioni per i
governatori di 12 delle 18 province. Il voto è
stato preceduto da una lunga serie di violenze:
dall’inizio del 2013 quattordici candidati sono
stati uccisi e ci sono state decine di attentati.
Gli ultimi, il 15 aprile in varie città del paese,
hanno causato cinquanta morti e trecento
feriti. Lo scrutinio permetterà di valutare la
popolarità del primo ministro Nuri al Maliki, in
particolare sul tema della sicurezza.
Fonte: Internazionale N°996, 19/24 aprile 2013
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