domenica 28 aprile 2013

Governo Letta, un piatto avvelenato (Antonio Padellaro, Il Fatto Quotidiano)



Chissà come devono sentirsi gli otto milioni e mezzo di elettori del Pd che lo scorso febbraio avevano pensato di votare contro Berlusconi e che ora si ritrovano al governo proprio con il Pdl di Berlusconi.
Un tradimento politico che non ha precedenti nella storia repubblicana, sancito solennemente dal presidente Giorgio Napolitano, vero, unico, grande regista dell’operazione quando stringendo a sé come un figlioccio che deve fare il bravo il premier Enrico Letta ha detto e ribadito che questo è un "governo politico" sancito da "un'intesa politica. Che poi questo ibrido mostruoso degno del dottor Frankenstein sia ingentilito da un qualche nome di prestigio in più (Emma Bonino, Fabrizio Saccomanni) e da qualche impresentabile in meno è la conferma dell’imbroglio.
L’assenza dei pezzi da novanta, da Brunetta a Schifani, da Monti a D’Alema non è una buona notizia per il nipote di Gianni Letta (zio molto presente nelle trattative) perché non offre sufficiente riparo politico al governo politico che, in men che non si dica, potrebbe trovarsi ridotto a rango di governo balneare. Molto dipende da Berlusconi che ha già piazzato il fido Alfano su due poltrone (vicepremier e ministro degli Interni) tanto perché si sappia che comanda davvero. E anche se la Giustizia è toccata al “tecnico” Cancellieri, al Caimano giustamente preoccupato per l’esito dei suoi numerosi processi non mancheranno gli interventi da larghe, anzi larghissime intese di Csm, Cassazione e Consulta. Ancora una volta, l’uomo di Arcore “a un passo da piazzale Loreto” (Giuliano Ferrara), grazie al suicidio del Pd e agli errori di Grillo (non votare Prodi) può giocarsi due carte pesanti. Sfruttare il più a lungo possibile la svolta di Napolitano e approfittare fino all’osso di un governo di cui è azionista di riferimento. Oppure condurre fino in fondo la battaglia per l’abolizione dell’Imu: formidabile calamita di voti nel caso decidesse di staccare la spina e di prendersi tutto il piatto con le elezioni anticipate già nel prossimo autunno.
Lo stesso non si può dire dei Democratici, costretti a cantare viva Napolitano e a portare la croce. Il governo Letta è una vera e propria bomba a orologeria per un partito in dissoluzione, con la base in rivolta e che in Parlamento sarà costretto a cogestire i problemi personali dell’ex nemico. Una delegazione di basso profilo completa la tragedia. Il resto, il rinnovamento generazionale, la bella storia di Josefa Idem campione di governo e la novità di un ministro dell’Integrazione di colore,Cécile Kyenge servono solo ad addolcire un piatto avvelenato.
(Antonio Padellaro, Il Fatto Quotidiano)


sabato 27 aprile 2013

Ammortizzatori sociali al punto di non ritorno: ora manca almeno 1 miliardo e mezzo (Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano)



“La situazione è esplosiva”. È questo il commento che arriva da quasi tutte le amministrazioni regionali. Perché l’emergenza della cassa integrazione in deroga taglia il Paese in maniera trasversale, senza praticamente eccezioni. I soldi per gli ammortizzatori sociali non ci sono più. Quanti ne servano per coprire il 2013 è difficile dirlo con precisione. Elsa Fornero, ministro del Welfare, ha stimato il fabbisogno in 2,3 miliardi di euro, rifacendosi ai dati del 2012. Una previsione forse ottimistica: “Le richieste sono in costante aumento, il budget necessario potrebbe anche essere superiore”, sottolinea la Cgil, per bocca di Claudio Treves, Responsabile del mercato del lavoro. E infatti secondo le Regioni ci vorranno 2 miliardi e 750 milioni. Senza considerare i 200 milioni di cui ancora c’è bisogno per chiudere il 2012. In ballo c’è il futuro di almeno 300mila cassintegrati in deroga (più i lavoratori in mobilità). Ma la quadra del cerchio è un miraggio: al momento le risorse stanziate dal ministero del Lavoro non arrivano neanche al miliardo (sono 990 milioni, per la precisione). Di fatto, manca all’appello una cifra che oscilla tra il miliardo e mezzo e i due miliardi di euro.
Colpa della crisi, certo. Ormai anche le imprese più strutturate si rivolgono alla cassa integrazione in deroga (originariamente pensata per le piccole imprese, o comunque per tutte le aziende non destinatarie della Cassa integrazione ordinaria), perché la loro dotazione di Cigo (fissata a un massimo di 52 settimane) non è più sufficiente. E così le richieste aumentano giorno dopo giorno, come dimostrano i dati dell’ultimo quinquennio: nel 2008 le ore autorizzate di cassa integrazione in deroga erano state appena 28 milioni; nel 2012 sono diventate addirittura 355 milioni. Stesso discorso per la spesa, che è più che triplicata: si è passati da 773 milioni spesi nel 2009, a circa 2,4 miliardi nel 2012 dopo gli 1,5 miliardi del 2010 e gli 1,6 miliardi del 2011 . “E per quest’anno nella più prudenziale delle ipotesi l’aumento non sarà inferiore al 25%”, aggiunge Gianfranco Simoncini, assessore al Lavoro della Toscana e coordinatore del Settore Lavoro della Conferenza delle Regioni.
L’ABBAGLIO DEI TECNICI. Ma alla base dell’emergenza, secondo la Cgil, ci sarebbe anche un colossale abbaglio preso dal governo: dal primo gennaio 2013 la copertura degli ammortizzatori in deroga è interamente a carico dello Stato centrale. Nell’ultimo quadriennio le Regioni avevano cofinanziato (prima al 30%, poi addirittura al 40%) gli ammortizzatori in deroga, usufruendo di alcunifondi comunitari riprogrammati per far fronte alla necessità. Ma si trattava di uno strappo alla regola: “Un’eccezione che non poteva protrarsi in eterno e diventare una misura strutturale, il governo avrebbe dovuto prevederlo”. Ancor più severo il giudizio di Giovanni Enrico Vesco, Assessore al Lavoro della Regione Liguria: “La situazione è stata gestita da cani. Hanno stanziato meno soldi del 2012 quando sapevano benissimo che non sarebbero mai bastati con la crisi che c’è”. La denuncia di Vesco è pesante: “La verità è che questo governo non lo dice, ma intende farespending review anche sugli ammortizzatori sociali”.
REGIONI AL LIMITE. Così si è aperta la voragine. E in alcune Regioni la situazione è già arrivata al limite. Anzi, oltre. In Toscana, ad esempio, dove l’Amministrazione si è vista costretta a bloccare le autorizzazioni al 30 gennaio per la cassa integrazione e al 28 febbraio per la mobilità: il pagamento da parte dell’Inps è stato autorizzato solo per 12mila lavoratori su 24mila. Per esaudire tutte le richieste (senza considerare la mobilità) ci vorrebbero più di 80 milioni. In Veneto la richiesta totale per la Cig in deroga ammonta addirittura a 380 milioni di euro. “Certo – sottolinea Pierangelo Turri, responsabile della Direzione Lavoro – la richiesta di solito è molto superiore all’utilizzazione effettiva (il cosiddetto tiraggio), che nel 2012 si è fermata al 25%”.
Ma anche prendendo per buono questo parametro, il fabbisogno complessivo è di circa 200 milioni, mentre la dotazione di appena 60. Ci sono 8400 domande dal mondo delle imprese, 43mila lavoratori in cassa integrazione in deroga e 3500 in mobilità. “Dovremo fare delle scelte dolorose, perché in tempi di crisi il legame con l’azienda è troppo importante e va tutelato”, spiega Turri. “Ma anche privilegiando la cassa integrazione rispetto alla mobilità, con queste risorse possiamo pagare solo i primi tre mesi del 2013. Non sappiamo quando di preciso, ma presto non avremo più un euro per sussidiare i lavoratori”. E a quel punto le aziende potrebbero cominciare a licenziare. E la situazione precipitare in maniera definitiva. Perché “gli ammortizzatori sociali sono stati l’ultimo baluardo di fronte alla miseria”, spiega Lucia Valente, assessore al Lavoro della Regione Lazio. Che però intravede una svolta nell’immediato futuro: “I tempi purtroppo sono cambiati: immagino che con la crisi soprattutto gli ammortizzatori in deroga verranno concessi con maggiore parsimonia. Anche perché non hanno risolto l’emergenza lavoro. Di qui in avanti servirà pensare a delle politiche diverse”.
LA SVOLTA NECESSARIA. Anche di questo si dovrebbe parlare in un incontro decisivo tra parti sociali, Regioni e Governo. “Sarà il momento della verità: non avranno alibi e non potranno più giocare a scarica barile fra un ministero e l’altro. Dovranno darci una risposta”, affermava la Cigl, con un certo ottimismo. Ma quel vertice, preannunciato per fine aprile, non è stato ancora convocato, complice anche la fibrillazione politica degli ultimi giorni. “Ad oggi non ci sono novità. Se non che il tempo passa e le richieste continuano a moltiplicarsi”, spiega l’assessore Simoncini. A questo punto sarà il nuovo governo a doversi far carico del problema: il nodo resta dove reperire le risorse necessarie. Vendola aveva proposto di stornare 1-2 miliardi dai famosi 40 destinati alle imprese.  Secondo Susanna Camusso si dovrebbero rinviare le spese militari e, eventualmente, istituire una piccola patrimoniale. Il governo, invece, punterebbe a risparmiare, ridistribuendo le risorse già destinate al mondo del lavoro. “Noi comunque siamo aperti ad ogni proposta – fa sapere la Cgil –, l’importante è trovare una soluzione”. Al più presto. “Altrimenti i cassintegrati diventeranno disoccupati. E il governo li avrà tutti sulla coscienza, dal primo all’ultimo”, conclude l’assessore ligure Vesco.
(Lorenzo Vendemiale)

venerdì 26 aprile 2013

Oltre la società del consumo (Achille Mbembe, Mail & Guardian, Sudafrica)



Negli ultimi vent’anni ha fatto molti passi avanti. Ma il Sudafrica è ancora lontano dai risultati che potrebbe raggiungere.



La banalizzazione della crudeltà e la ripetizione di eventi traumatici – il massacro alla miniera di Marikana del 16 agosto 2012, gli omicidi commessi dalla polizia, la proliferazione di forme di xenofobia, un numero orribilmente alto di stupri, una cultura sempre più dominata dall’avidità, dalla corruzione e dal furto, la nuova frammentazione della società, il riemergere del razzismo e la violenza delle proteste popolari – hanno spinto molti a chiedersi verso quale forma di ordine sociale, di libertà o di convivenza si stia dirigendo il Sudafrica.
Nonostante i vent’anni trascorsi dalla fine dell’apartheid non si capisce se ci troviamo davanti a qualcosa di radicalmente nuovo e insidioso, o se stiamo tornando alle vecchie bugie odiose e brutali, questa volta con la pelle e la maschera nera. Secondo Frantz Fanon – un importante studioso delle sindromi causate dalle lotte anticoloniali – i traumi provocati dalla supremazia bianca hanno prodotto nelle vittime l’incapacità di proiettarsi nel futuro. Schiacciate dal passato, queste vittime hanno una coscienza storica menomata e hanno sviluppato una tendenza alla ripetizione compulsiva e una profonda sfiducia nelle loro capacità di dare forma al futuro. Per sfuggire alla ripetizione, l’intera struttura sociale e psichica sarebbe dovuta cambiare. 
In questo modo sarebbe stato possibile reinventare un nuovo concetto di vita, libertà e umanità, distruggere un mondo popolato da maschere e costruire una nuova società.
Forse il Sudafrica sta ancora lottando per uscire dal mondo delle maschere. Di sicuro non rientra nella categoria degli “stati falliti” e sarebbe disonesto sostenere che negli ultimi vent’anni non è stato fatto nulla. Ma, allo stesso modo, il paese non è avanzato con decisione verso i risultati che dovrebbe raggiungere e verso quello che potrebbe diventare.
Il Sudafrica non sta tornando indietro. Nella migliore delle ipotesi sta vivendo un periodo di oscillazioni, svolte, cadute e risalite. Nella peggiore, è in una fase di stalllo.
Negli ultimi vent’anni ha fatto molti passi avanti. Ma il Sudafrica è ancora lontano dai risultati che potrebbe raggiungere lo. 
La più importante trasformazione dalla fine dell’apartheid è il passaggio da una società del controllo a una società del consumo. Questo cambiamento sta avvenendo in un contesto dove non sono presenti strutture di produzione di massa, dove i cittadini sono armati e, in gran parte, non possiedono quasi nulla.
Nei suoi quasi vent’anni al potere, l’African national congress (Anc) ha faticato a trovare la formula adatta per stabilire il suo dominio su una costellazione di formazioni sociali frammentate e diverse tra loro. Non poteva riprodurre il modello dell’apartheid, che si basava sul controllo degli spostamenti della popolazione non bianca. Inoltre, sotto il dominio della minoranza bianca, governare consisteva principalmente nel modulare l’uso della violenza. Nel Sudafrica post-apartheid non ci si è ancora resi conto di quanto l’uso della violenza sia stato interiorizzato e riprodotto a ogni livello della vita sociale e dell’individuo: nelle sfere più intime dell’esistenza quotidiana, nelle forme della sessualità, nel desiderio irresistibile per i beni materiali, nei rapporti con la burocrazia, nel comportamento della polizia, nella criminalità, nel linguaggio politico.


Se la politica e la cultura del Sudafrica sono in profonda crisi è perché abbiamo pensato che il diritto al consumo fosse la sostanza ultima della democrazia e della cittadinanza. Ma questa combinazione tra democrazia e consumo non è tipica del Sudafrica. 
La nostra è una democrazia con una maggioranza di cittadini senza proprietà che vivono in un paese modellato storicamente dalla contraddizione tra il governo del popolo e il governo della proprietà. Perfino la borghesia nera non è del tutto sicura che qualsiasi cosa possieda oggi (una casa, una macchina, un frigorifero) non le sarà portato via domani. L’Anc ha capito che il controllo non può più essere esercitato in un sistema chiuso, come in passato. 
Nella versione sudafricana della democrazia capitalista il controllo è fluttuante.
L’élite politica al governo e i poteri economici applicano uno schema infausto: la povertà di massa unita ad alti livelli di disuguaglianza, crimine e tasse può anche generare proteste disordinate, scioperi sporadici e un aumento della violenza, ma non deve innescare un ribaltamento radicale della struttura politica ed economica. 
Il Sudafrica è entrato in una nuova epoca storica: uno scenario postmachiavellico in cui l’arricchimento non avviene più attraverso l’esproprio immediato ma tramite  l’appropriazione delle risorse pubbliche, la modulazione della violenza e la strumentalizzazione dei disordini. Il clima culturale favorisce questa tendenza. I sudafricani sono legati a doppio ilo alle strutture della segregazione psichica, spaziale, mentale e affettiva più di quanto siano disposti ad ammettere. Questa nostalgia per il passato è stata favorita dall’aumento della criminalità e ha provocato una nuova frammentazione della società.

La condizione attuale è una conseguenza diretta della trasformazione del paese in una nazione di cittadini armati, con una polizia militarizzata, centinaia di imprese di sicurezza private e una popolazione divisa tra i pochi che possono pagare le tasse, ma non votano
il partito al potere, e i molti che sostengono il partito al potere e sopravvivono
grazie a vari tipi di sussidi.
Sempre più esposti a ogni genere di rischio, molti credono che il cittadino debba farsi giustizia da solo e che le dispute vadano risolte con la forza. Ma una società armata non sarà mai una società civile, una comunità politica e nemmeno una democrazia. Non è altro che un ammasso di individui soli davanti al potere, allontanati l’uno dall’altro dalla paura, dal pregiudizio, dalla diffidenza e dal sospetto. L’esperimento del Sudafrica con la libertà avrà vita breve se la violenza sarà lo strumento privilegiato delle relazioni tra i cittadini da una parte (che dovrebbero essere liberi e uguali), e lo stato e i mercati dall’altra. 
Le armi sono una forma di comunicazione barbara e antidemocratica. Se non ci opporremo, il governo del popolo si trasformerà in governo della proprietà, e il governo della proprietà diventerà presto il governo delle armi.

(Achille Mbembe è un ilosofo camerunese, uno dei più importanti teorici del postcolonialismo. Insegna alla University of the Witwatersrand di Johannesburg.)


Fonte: Internazionale N°996, 19/24 aprile 2013



giovedì 25 aprile 2013

Le forze del disordine (Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador)



San Pedro Sula è la città più violenta dell’Honduras e una delle più violente del mondo. Tutti credono che la responsabilità sia delle gang criminali, ma spesso è della polizia. E per i cittadini non c’è modo di avere giustizia.



Fermatevi un attimo!”, dice la nostra guida. Da poco ci siamo lasciati alle spalle la città e ci addentriamo in una strada larga e polverosa, fiancheggiata da campi brulli e casette circondate dalla sterpaglia.
Questo quartiere ha un aspetto troppo rurale per essere considerato parte di San Pedro Sula, la città industriale più importante dell’Honduras (più della capitale Tegucigalpa).
La guida ci ha chiesto di fermarci perché finalmente siamo arrivati all’ingresso di Chamelecón, considerata dalla polizia una zona pericolosa. Dobbiamo compiere un gesto rituale: “Abbassate i finestrini”, ci ordina la guida. “Altrimenti penseranno che siamo venuti a sparargli”.
In lontananza, fermi sul marciapiede di una piccola casa con le pareti di cemento, alcuni ragazzi aspettano che ci avviciniamo o facciamo retromarcia. Siamo alle porte di una comunità che si estende per un paio di chilometri e sorge sulla riva di un iume al quale ha rubato il nome: Chamelecón. Il “posto di blocco” dipende da alcuni episodi avvenuti in passato: in varie occasioni sono entrati dei pick-up con i vetri scuri e alcuni ragazzi ci hanno rimesso la pelle. Secondo la polizia le vittime appartenevano alla gang Barrio 18. Abbassiamo i finestrini. La guida ci chiede di procedere lentamente. I ragazzi ci guardano con curiosità. Sono seri. Uno di loro fuma, un altro incrocia le braccia, un terzo ci punta contro il dito indice mentre parla al cellulare.
“Quei ragazzi sono sentinelle”, ci spiega la guida. “Sicuramente hanno avvisato gli altri che non siamo una minaccia”.
Al primo piano di un ristorante nel centro della città un gruppo di donne fa la fila per ordinare il pranzo. A prima vista sono un gruppo di amiche qualsiasi che si ritrovano per mangiare insieme. È solo dopo le presentazioni e i chiarimenti (fa davvero il giornalista? Come ha avuto i nostri numeri?
Perché vuole sapere chi siamo e cosa ci è successo?) che il gruppo svela la sua vera identità.
Saliamo al secondo piano e ci sediamo a un tavolo un po’ isolato. A quel punto, una delle donne, tra le risate, mi svela un segreto: “Non ci hai fatto caso, ma non ci siamo fermate a fare la fila fino a quando non abbiamo deciso che con te qui non avremmo corso pericoli”. Questa donna, che parla ridendo in modo nervoso e a denti stretti, più tardi ci porterà in una zona pericolosa della città dove un anno e mezzo fa suo fratello è stato torturato, sequestrato e fatto scomparire. Anche le altre due donne hanno perso dei familiari (in circostanze e luoghi diversi). Ancora oggi li stanno cercando.
Prima di terminare il pranzo, le donne mi hanno raccontato le loro storie, la vita dei loro parenti scomparsi e cosa è successo da quando non ci sono più. Mi hanno anche detto che il giorno prima del nostro incontro sono andate a vedere dei cimiteri clandestini e questa mattina presto hanno fatto un salto all’obitorio della città. Dopo aver bussato a tutte le porte per chiedere dei loro familiari, a pranzo parlano di argomenti meno dolorosi. Sono unite da un legame che non hanno scelto. È come se fossero iscritte a un club che in realtà non esiste (almeno formalmente): il club delle madri, delle mogli, delle sorelle e delle figlie
dei desaparecidos di San Pedro Sula. Per due anni consecutivi il Consejo ciudadano para la seguridad pública y justicia penal, una ong messicana, ha segnalato San Pedro Sula come la città più violenta del mondo. Il 2012 si è chiuso con un tasso di 169 omicidi ogni centomila abitanti. San Pedro Sula ha una pessima fama e si è fatta conoscere anche al di là delle frontiere nazionali. A febbraio un fotoreporter l’ha portata alla ribalta internazionale dopo aver ritratto una piccola scena di violenza che ha vinto il secondo premio del World press
Le forze del disordine Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador. Foto di Esteban Félix San Pedro Sula è la città più violenta dell’Honduras e una delle più violente del mondo. 
Tutti credono che la responsabilità sia delle gang criminali, ma spesso è della polizia. E per i cittadini non c’è modo di avere giustizia.

San Pedro Sula è una città pianeggiante dove è il caldo a stabilire la velocità con cui si muove la gente. Funziona così fino a quando piove perché, oltre alla violenza, la città è nota per il suo pessimo sistema fognario. San Pedro Sula genera il 60 per cento del pil dell’Honduras e si trova proprio sull’orlo del precipizio che le città più importanti dell’America Centrale cercano di superare per lanciarsi verso la modernità, ma non ci è ancora riuscita.
Quando piove, nel centro della città – progettato secondo la classica struttura urbanistica spagnola – la cosa migliore è restare in casa: in alcuni casi le piogge torrenziali hanno travolto passanti e automobili.
Mano a mano che ci si allontana dal centro, in molti quartieri le tubature delle acque nere scompaiono. E nelle comunità periferiche, come Chamelecón, se piove più forte tutto si riempie di fango. E nelle strade restano pozze d’acqua, pantani e vivai di zanzare.
È proprio quello che c’è davanti alla casa dove ci ha portato la guida: una pozza di fango e tante zanzare. La guida scende dall’auto e grida un nome. Dopo qualche secondo, si affacciano al portone due donne, le protagoniste di questa storia. La madre è bassa e sovrappeso. Ha 45 anni. La figlia è una bella bambina di dodici anni. Dopo i saluti e le presentazioni, la guida si rivolge alla signora, che è anche sua cognata: “Fagli vedere dove hanno sparato”, le dice. La donna ci mostra cinque fori di pallottola sul portone. Entriamo. La sala è piccola, e nel mezzo c’è un tavolo di vetro scheggiato su due angoli. L’hanno rotto gli uomini che hanno sequestrato Carlos López, il fratello della guida.
Il 21 agosto 2011, alle cinque di mattina, un gruppo di uomini ha svegliato la famiglia López di soprassalto, bussando con forza alla porta di casa. “Aprite o sfondiamo la porta”, ha gridato uno degli uomini, mentre altri due continuavano a sbattere violentemente i pugni. Carlos López non sapeva cosa fare, e solo quando la moglie gli ha chiesto di affacciarsi dalla inestra del salotto per chiedere agli uomini chi fossero, ha deciso di affacciarsi alla porta. Nella stanza, la moglie teneva stretta la bambina e spiava dalla finestra.
“Chi siete? Cosa volete?”, ha gridato Carlos López, e subito ha sentito ripetere la stessa minaccia: “Aprite o sfondiamo la porta!”.
In questa zona detta legge la gang Barrio 18. Per questo è difficile immaginare che la moglie, la iglia e la sorella non accusino del rapimento di Carlos i pandilleros.
La mattina del 21 agosto 2011 gli uomini che hanno fatto irruzione in casa loro indossavano uniformi simili a quelle della polizia, con armi grosse come quelle delle forze dell’ordine e i passamontagna usati dai poliziotti durante le retate a sorpresa.
Sul giubbotto antiproiettile di uno degli uomini la moglie di López è riuscita a leggere una sigla: Dnic, divisione nazionale d’investigazione criminale dell’Honduras. Carlos López viveva a Chamelecón da diciassette anni quando un gruppo di persone armate e con l’uniforme della polizia l’ha sequestrato e l’ha fatto sparire. 
Nel parcheggio di casa gestiva una sala con quattro tavoli da biliardo e una piccola rivendita di birre. Era conosciuto nella zona e andava d’accordo con tutti, proprio perché il suo locale era l’unico luogo di divertimento per gli uomini della comunità nel raggio di due chilometri. In posti come Chamelecón, quando si parla degli “uomini della comunità”, ci si riferisce anche ai
güirros, gli affiliati delle gang.
La sala da biliardo di Carlos López era aperta dal martedì alla domenica, dalle cinque alle dieci di sera. Tre volte alla settimana vari giovani delle gang si presentavano nel locale per giocare, ritrovarsi e chiacchierare.
A Chamelecón, come nelle centinaia di comunità dominate dalle bande giovanili in America Centrale, questi ragazzi sono una sorta di autorità a cui non si può dire di no. 
La posta in gioco è troppo alta. Ma per quanto possa sembrare strano, gli abitanti del posto rischiano di morire solo in circostanze straordinarie: se la gang ritiene che un abitante della zona, uomo o donna, abbia rapporti con la banda rivale o se sospetta che sia un informatore della polizia.
Una terza causa di rischio riguarda l’abuso sessuale nei confronti di ragazze giovani o nel caso di donne costrette a fidanzarsi in base alla legge del più forte, soprattutto quando le ragazze non hanno genitori come Carlos López, che sono rispettati dalle gang.

Gli affiliati delle bande sono igli di gente del posto. Le persone come Carlos López li conoscono da quando erano bambini e li hanno visti crescere. 
Carlos non aveva mai subìto nessuna estorsione dalle gang. Ma una volta al mese, su richiesta dei ragazzi e dopo una serie di trattative, regalava agli ailiati della Barrio 18 una cassa di birra. Faceva lo stesso per le feste e per i compleanni dei ragazzi della gang. Per questo né lui né la moglie pensavano di avere problemi con loro.
Invece temevano che si cacciassero nei pasticci. Soprattutto perché la presenza dei ragazzi della Barrio 18 nella sala da biliardo rischiava di causare un conlitto con l’altra fazione. 
Un gruppo che usa armi legali, ha distintivi ma da anni in Honduras è un’istituzione profondamente corrotta: la polizia. “Le ho ordinato di aprire!”. Carlos López ha aperto la porta, e la moglie è riuscita solo a percepire il gemito di qualcuno che era stato colpito così forte da rimanere senza fiato. Poi ha sentito il rumore di un vetro spezzato e ha capito che gli uomini avevano rotto il suo tavolo. Madre e figlia si sono abbracciate, ma sono state subito separate da uno degli uomini che è entrato nella stanza e gli ha ordinato di separarsi. Loro hanno obbedito e hanno visto Carlos López trascinato verso la cucina. “Sei il Mope!”, gridava uno dei sequestratori, mentre un altro lo ammanettava con le mani dietro la schiena.
Carlos ha cercato di opporsi, con la faccia contro il pavimento. Ha ricevuto qualche
calcio. “Che vuol dire che non sei il Mope? Fai parte della banda”, insisteva il sequestratore.
Anche la moglie di Carlos è stata interrogata, ma non è riuscita a parlare per la paura. 
In cucina, Carlos continuava a ricevere calci. “Si chiama Carlos López! È mio padre, per favore, lasciatelo stare”, ha gridato la figlia fuori di sé, vedendo il padre torturato e la madre che non reagiva.
La moglie di Carlos si è ripresa solo quando l’uomo si è avvicinato alla bambina. Si ricorda che ha quasi sbattuto il passamontagna contro il naso della figlia mentre la guardava fisso negli occhi, con uno sguardo pieno di cattiveria. “Mio marito non è il Mope!”, ha gridato, e poi ha abbracciato la bambina.
L’uomo ha ordinato ai colleghi in cucina di portare Carlos in cortile. Quella mattina in casa c’era anche una nipote di Carlos, che era arrivata la sera prima. Uno degli uomini l’ha scovata nascosta in un’altra stanza e l’ha trascinata nel giardino, tirandola per i capelli. “Questa qui è una di loro!”, ha detto, poi l’ha tirata su, le ha schiacciato il corpo e la faccia contro un muro e l’ha gettata per terra, a pancia sotto. 
Alla fine le ha messo uno stivale sulla nuca. Ed è rimasto così per un bel po’. Né Carlos López né la moglie capivano perché, dopo aver cercato dappertutto e aver messo sottosopra la casa senza trovare né droga né armi, quegli uomini continuassero a sostenere che in casa c’era un delinquente affiliato a una gang conosciuto come il Mope e a cercare droga e armi.
I sequestratori con il passamontagna, con le uniformi e i giubbotti antiproiettile simili a quelli della polizia, hanno torturato Carlos López per altri dieci minuti davanti alla moglie, alla nipote e alla iglia. Erano in sei. L’hanno fatto alzare strattonandolo per i capelli e, nonostante le preghiere delle donne, non gli hanno permesso di salutare nessuno. Poi l’hanno fatto salire sul pick-up con i vetri oscurati con cui erano arrivati. 
Hanno cercato d’inseguirli, ma sono tornate indietro di corsa e si sono nascoste dietro a un muro perché uno degli uomini, prima di salire sul veicolo, ha sparato una raffica di mitragliatrice contro la porta di casa. Secondo le due donne, voleva evitare che prendessero la targa del pick-up.
Alcuni anni fa, alla vigilia di Natale del 2004, un commando armato ha crivellato un autobus pieno di gente in una strada del quartiere San Isidro di Chamelecón. Sono morte ventotto persone, tra cui sette bambini. 
Proprio all’apice della sua campagna di tolleranza zero contro le gang, l’allora presidente dell’Honduras, Ricardo Maduro, ha denunciato che i responsabili erano gli affiliati di una gang. La polizia ha arrestato varie persone, presumibilmente della mara Salvatrucha, accusandole di quel massacro. Un anno dopo un tribunale ha condannato due dei sospetti a 822 anni di carcere. 
La sentenza ha avuto grande risonanza nei tribunali del paese ed è stata considerata da tutti un grande successo.

Ma secondo diverse organizzazioni per i diritti umani in Honduras, non è stata una gang a sparare all’autobus. Il dubbio è stato sollevato da uno dei candidati alla presidenza dell’epoca, che poi è diventato presidente dell’Honduras: Manuel Zelaya. Nel 2005 Zelaya (rovesciato quattro anni dopo da un colpo di stato) disse che, dietro all’attacco all’autobus, c’era un’alleanza tra il narcotraico e la polizia. 
Non è stata la prima né l’ultima volta che la polizia honduregna è stata accusata di essere dietro ad alcuni casi di strage.
Nel 2002 l’ispettrice di polizia María Luisa Borjas cercò di portare in tribunale un gruppo di ufficiali e investigatori della divisione nazionale di investigazione per la loro partecipazione a una serie di omicidi extragiudiziali di giovani sospettati di appartenere a una banda o di essere delinquenti.
Tra gli ufficiali c’era anche Salomón de Jesús Escoto Salinas, che nel 2009 è stato nominato direttore della polizia da Manuel Zelaya. Secondo l’inchiesta di Borjas, quello stesso gruppo era responsabile del sequestro di un ex ministro dell’economia e di aver ucciso i rapitori che avevano collaborato con il gruppo. Il capo del gruppo di sequestratori, sostiene Borjas, era Juan Carlos “el Tigre” Bonilla, che oggi è il direttore della polizia del paese.
Durante le sue indagini, Borjas è stata destituita ed espulsa dalla polizia. Ma da dieci anni è un punto di riferimento per parlare della corruzione delle forze dell’ordine in Honduras. Continua a sostenere che, dal 2002 al 2004, il governo di Ricardo Maduro “ha applicato una politica di sterminio contro presunti giovani delle gang o delinquenti, guidata dagli alti comandi della polizia, progettata e realizzata nelle città di San Pedro Sula e La Ceiba”.
Nell’ottobre del 2011, le accuse avanzate da Borjas tra il 2002 e il 2004 sono tornate fuori. Nella capitale Tegucigalpa un gruppo di poliziotti ha sequestrato e ucciso due giovani. Uno si chiamava David Pine da. L’altro era Alejandro Castellanos, il figlio della rettrice dell’Universidad nacional autónoma de Honduras, Julieta Castellanos.
Il crimine ha scosso il paese per due motivi: ha rivelato che i vertici della polizia avevano cercato di insabbiare i fatti e ha spinto l’Honduras ad ammettere non solo che la polizia nazionale è corrotta e ha un rapporto stretto con il crimine organizzato, ma anche che tra i suoi agenti ci sono degli assassini.
Il caso di Carlos López è uno tra le centinaia di sparizioni forzate o omicidi dell’Honduras. Un’amica della nostra guida – un’altra del gruppo delle mogli e delle madri dei desaparecidos – ha perso il marito, Reynaldo Cruz. È stato sequestrato in una strada traicata della città da un commando armato a bordo di un pick-up con i vetri scuri. Lei e il marito erano a bordo di un piccolo autobus quando il pick-up gli ha tagliato la strada e gli ha ordinato di fermarsi.
Dal furgone sono scesi alcuni uomini incappucciati che hanno puntato le armi contro tutti i passeggeri, poi hanno fatto scendere Reynaldo, gli hanno coperto il volto con un sacco, l’hanno fatto salire sul veicolo e l’hanno portato via. Ancora oggi nessuno sa dove si trovi. Gli uomini che l’hanno sequestrato erano vestiti come i poliziotti della Dnic: indumenti sportivi,
giubbotti antiproiettile e passamontagna. 
Anche Reynaldo, come Carlos López, gestiva una sala da biliardo nel suo quartiere, la Planeta, uno dei più conlittuali della città a causa della presenza delle gang. Prima di essere sequestrato Reynaldo era stato accusato dai poliziotti che pattugliavano il quartiere di proteggere i delinquenti delle bande. 
In realtà Reynaldo era un leader della comunità: gestiva una sala da biliardo, accoglieva ogni tipo di cliente e aveva rapporti con i ragazzi della zona, affiliati di una gang o no, perché organizzava attività ricreative. Di questi scontri con la polizia la famiglia conserva anche una foto, un po’ mossa, scattata da un uomo del posto durante una retata alla sala da biliardo, quando un gruppo di agenti ha cercato di portare via Reynaldo. L’unica testimone del sequestro, la sola che vuole ancora ricordare, è la moglie. Si è dovuta rifugiare in periferia, a
casa di alcuni amici.
Commando armati: ultimamente ne parlano tutti in Honduras, soprattutto a San Pedro Sula. Il 17 febbraio 2013 Óscar Ramírez, un giovane di diciassette anni figlio del penultimo direttore della polizia (è una carica in cui c’è molta rotazione), è stato ucciso in un lussuoso quartiere nei dintorni di Tegucigalpa da un commando armato.
Suo padre, Ricardo Ramírez del Cid, l’ex direttore della polizia, ha chiesto di aprire un’inchiesta sull’attuale direttore, Juan Carlos Bonilla, per possibili legami con il crimine.
Juan Carlos Bonilla detto “el Tigre”: lo stesso uiciale accusato dieci anni fa da María Luisa Borjas di dirigere un gruppo di poliziotti che uccidevano presunti delinquenti a San Pedro Sula.
Perché San Pedro Sula è la città più violenta del mondo? E perché l’Honduras è il paese più violento del mondo? È impossibile dare una risposta soddisfacente. Ma di certo oggi c’è una domanda ancora più urgente per capire la condizione degli honduregni: come si vive in un posto dove non ci si può fidare di nessuno, neanche della polizia?
Tutte le risposte convergono verso un solo colpevole che ha cambiato le carte in tavola, trasformando in potenti i cattivi e in cattivi i buoni. Quando parlano di questo colpevole di solito gli esperti si riferiscono a San Pedro Sula, ma la loro analisi funziona anche per spiegare quello che succede nel resto del paese. 
Migdonia Ayestas dirige l’istituto universitario Democracia paz y seguridad, un ufficio che fa capo all’Universidad nacional de Honduras e coordina un osservatorio sulla violenza voluto dalle Nazioni Unite.
Secondo Ayestas, “non esiste un’inchiesta criminale esaustiva in grado di spiegare le cause e i motivi di questa violenza. Ma i dati preliminari messi a disposizione dalle autorità indicano che, dietro quest’ondata di criminalità, ci sia il narcotraffico proveniente dal Sudamerica”.
Elvis Guzmán, portavoce della procura di San Pedro Sula, afferma: “Gli omicidi, lo spaccio e le gang più o meno legate alla criminalità organizzata sono una parte del problema più grande del narcotraffico. Non lo possiamo negare. È il problema attuale. Qui ce n’è parecchio”.
Il commissario Amílcar Mejía Rosales, capo della polizia a San Pedro Sula (si è appena trasferito da Tocoa, un dipartimento dove arrivano i maggiori quantitativi di droga dall’America meridionale e dove è in corso una lotta per la terra tra i contadini e le guardie dei proprietari terrieri), sostiene:
“L’Honduras è il paese dell’America Centrale più vulnerabile per il passaggio della droga dal sud al nord. Ed è facile capire mperché: i grandi narcotrafficanti pagano lo stoccaggio e il trasporto con la droga, non in contanti. E la lotta tra gli spacciatori locali per il controllo dei territori e dei mercati sta facendo aumentare gli omicidi”.
Da quando Carlos López è sparito, più di sedici mesi fa, a sua moglie torna sempre in
mente un dettaglio che ancora non si spiega: perché il commando che ha fatto irruzione in casa continuava a chiedere droga, armi e informazioni su una persona che chiaramente
non conoscevano e non avevano mai visto in faccia? Lei è convinta che a portarsi via Carlos siano stati dei poliziotti, per questo vuole che qualcuno le dica dove si trova suo marito, se è vivo o morto. Finora né la procura per i diritti umani dell’Honduras né la polizia si sono espresse sulle sparizioni di Carlos López, di Reynaldo Cruz e degli altri scomparsi.
Prima di salutarci, la madre e la figlia di Carlos mi portano in un terreno brullo a mezzo chilometro da casa loro. È uno spiazzo di circa venticinque metri quadri.
Attaccato agli alberi e avvolto intorno al filo spinato di un recinto, c’è un nastro giallo
con su scritto “non oltrepassare”. Proprio qui, tre giorni fa, la polizia ha trovato un cimitero clandestino. Ci dovrebbero essere almeno tre cadaveri sotterrati, presunte vittime della gang Barrio 18.
Mentre aspettiamo che arrivi l’autista che ci porterà via da Chamelecón, la madre domanda: “L’ambasciata degli Stati Uniti darà asilo a gente come noi?”. Ha paura che gli stessi uomini che hanno sequestrato il marito tornino a cercare anche loro. È preoccupata per sua figlia. Prima di partire, un pick-up della polizia si affianca alla nostra macchina. Arrivano dal cimitero clandestino.
Incrociamo lo sguardo degli agenti: sono seri. Gli occhi della bambina si riempiono di tutta la rabbia di cui è capace una dodicenne. “Eccoli, quei maledetti”, sussurra quando il pick-up è ormai lontano.


Da sapere:

-28 giugno 2009 Un colpo di stato dei militari destituisce il presidente Manuel Zelaya e lo costringe all’esilio in Costa Rica. Roberto Micheletti assume l’incarico di presidente ad interim.
-5 luglio 2009 L’Organizzazione degli stati americani sospende l’Honduras.
-21 settembre 2009 Zelaya torna in Honduras e si rifugia nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa.
-29 novembre 2009 Poririo Lobo Sosa, candidato del Partito nazionale
(conservatore) e sostenuto dai golpisti, viene eletto presidente.
-Gennaio 2010 Zelaya va in esilio nella Repubblica Dominicana.
-Maggio 2010 Una commissione della verità comincia a investigare sull’espulsione di Zelaya. La commissione stabilisce che si è trattato di un golpe.
-Dicembre 2011 Per affrontare l’aumento degli omicidi nel paese, il parlamento approva un provvedimento che concede all’esercito gli stessi poteri della polizia.
-Maggio 2012 Migliaia di persone protestano contro l’ondata di violenza nei confronti dei giornalisti. Negli ultimi tre anni ne sono stati uccisi più di venti.

(Daniel Valencia Cervantes, El Faro, El Salvador)


Fonte: Internazionale 25 aprile/2 maggio 2013 N°997












I conlitti nascosti nella guerra siriana (Rami Khouri)



Il conlitto in Siria sta assumendo dimensioni sempre più pericolose a causa degli ultimi sviluppi lungo il confine siriano-libanese, dove le forze contro il governo siriano e quelle a favore, sostenute da Hezbollah, hanno cominciato a spararsi a vicenda. 
A scatenare gli scontri è stata la recente ondata di rapimenti incrociati alla frontiera nordorientale libanese, in una zona che raccoglie tutte le varietà di nazionalismi e settarismi del mondo arabo. 
Finora il modo più facile per descrivere quello che succede in questa regione è stato parlare
di scontri tra sunniti e sciiti o dell’antagonismo tra gruppi a favore e contro il governo siriano.
Il coinvolgimento di Hezbollah aggiunge un nuovo elemento signiicativo a questo mix e ci aiuta anche a capire meglio cosa c’è dietro i combattimenti in Siria e nei paesi vicini. Non è solo uno “straripamento” della guerra siriana in Libano. 
Quella che si sta combattendo in Siria è la più grande battaglia per procura dei nostri tempi, e sono convinto che oggi questo appaia più chiaro che mai dalla ragnatela di altri conlitti che ha scatenato a livello locale, regionale e globale. 
Questa guerra sta durando così a lungo proprio perché si combatte a vari livelli e perché al suo interno si svolgono contemporaneamente sei battaglie diverse.
1. Il primo livello è quello della rivolta dei cittadini contro il regime della famiglia Assad, che governa la Siria da 43 anni. È una lotta che rilette il difuso desiderio di libertà, di diritti e di dignità che oggi contraddistingue buona parte del mondo arabo. Dopo che le manifestazioni
di massa non violente scoppiate in tutto il paese nella primavera del 2011 hanno provocato la violenta reazione militare del regime, questo conflitto politico è diventato una guerra armata.
2. La guerra per il controllo della Siria ha riacceso un conflitto che affligge la regione dagli anni cinquanta: la guerra fredda araba tra diverse forze regionali che cambiano continuamente nel tempo. Per semplificare potremmo dire che c’è una contrapposizione tra conservatori e radicali, tra capitalisti e socialisti, tra monarchici e repubblicani, tra monarchici islamisti e nazionalisti arabi o tra filoccidentali e antioccidentali, anche se nessuna di queste dicotomie è esatta al cento per cento. Sempre per semplificare, da decenni questa guerra fredda araba contrappone l’Arabia Saudita e i suoi alleati conservatori da una parte e, in momenti diversi, governi come quelli di Siria, Egitto o Iraq dall’altra.
3. Il terzo livello del conlitto siriano è la vecchia rivalità tra arabi e iraniani, che negli ultimi tempi è stata spesso rideinita come rivalità tra sunniti e sciiti. È simboleggiata dall’alleanza tra il governo iraniano e quello siriano cominciata nel 1979, a cui di recente si sono aggiunti gli stretti rapporti tra Iran e Hezbollah. I rapporti strategici di Teheran con Damasco e con Hezbollah sono stati uno dei pochi successi di politica estera della rivoluzione islamica del 1979, quindi i leader coinvolti faranno di tutto per non perdere i vantaggi reciproci che ne derivano.
4. La quarta battaglia è una versione rinnovata ma limitata della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica (con la Cina e vari stati europei che le girano intorno per ottenere contratti energetici e altri vantaggi). La Russia ha assunto una posizione decisa sulla Siria sia per impedire che siano gli Stati Uniti a stabilire da soli quali leader arabi devono andarsene e quali no, sia per raforzare la sua posizione di ipotenza globale. A quasi un quarto di secolo dalla fine della guerra fredda, Mosca sta cercando di riequilibrare i rapporti di potere internazionali mettendo formalmente fine all’era del “dopo guerra fredda”, in cui gli
Stati Uniti erano l’unica superpotenza in un mondo unipolare.
5. Il quinto conflitto, anche questo un riflesso di una tendenza regionale, è la secolare tensione tra il potere dello stato moderno centralizzato arabo – basato sullo sviluppo e la sicurezza – e tutte quelle forze che portano alla disintegrazione e alla frammentazione etnica, religiosa, settaria, nazionale e tribale. Queste antiche identità subnazionali caratterizzano le nostre società da molto prima della nascita degli stati arabi moderni e sono sempre pronte a riaffermarsi quando lo stato non funziona bene e non soddisfa i bisogni della popolazione.
6. Il sesto e ultimo livello di conflitto in Siria è quello tra i gruppi estremisti salafiti che si ispirano ad Al Qaeda, come Jabhat al Nusra, e i principali partiti di opposizione che lottano per abbattere il regime della famiglia Assad, come i Fratelli musulmani o gruppi laici più ampi come la Coalizione nazionale siriana o il Consiglio nazionale siriano. Alcuni analisti occidentali e della regione sono terrorizzati all’idea che Al Nusra e altre organizzazioni simili possano prendere il controllo di tutta o parte della Siria dopo la caduta di Assad, una prospettiva che però mi sembra poco realistica. 
Quello a cui stiamo assistendo in Siria è qualcosa di molto più complicato di uno straripamento nei paesi vicini della rivalità tra sunniti e sciiti.

(Rami Khouri, è columnist del quotidiano libanese Daily Star. È direttore dell’Issam Fares institute of public policy and international afairs all’American university di Beirut)


Fonte: Internazionale 25 aprile/2 maggio 2013 N°997

Napolitano bis, Funeral Party (Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano)




La scena supera la più allucinata fantasia dei maestri dell’horror, roba da far impallidire Stephen King e Dario Argento. Il cadavere putrefatto e maleodorante di un sistema marcio e schiacciato dal peso di cricche e mafie, tangenti e ricatti, si barrica nel sarcofago inchiodando il coperchio dall’interno per non far uscire la puzza e i vermi. Tenta la mission impossible di ricomporre la decomposizione. E sceglie un becchino a sua immagine e somiglianza: un presidente coetaneo di Mugabe, voltagabbana (fino all’altroieri giurava che mai si sarebbe ricandidato) e potenzialmente ricattabile (le telefonate con Mancino, anche quando verranno distrutte, saranno comunque note a poliziotti, magistrati, tecnici e soprattutto a Mancino), che da sempre lavora per l’inciucio (prima con Craxi, poi con B.) e finalmente l’ha ottenuto.
E con una votazione dal sapore vagamente mafioso (ogni scheda rigorosamente segnata e firmata, nella miglior tradizione corleonese). Pur di non mandare al Quirinale un uomo onesto, progressista, libero, non ricattabile e non controllabile, il Pd che giurava agli elettori “mai al governo con B.” va al governo con B., ufficializzando l’inciucio che dura sottobanco da vent’anni. Per non darla vinta ai 5Stelle, s’infila nelle fauci del Caimano e si condanna all’estinzione, regalando proprio a Grillo l’esclusiva del cambiamento e la bandiera di quel che resta della sinistra (con tanti saluti ai “rottamatori” più decrepiti di chi volevano rottamare). La cosa potrebbe non essere un dramma, se non fosse che trasforma la Repubblica italiana in una monarchia assoluta e la consegna a un governo di mummie, con i dieci saggi promossi ministri e il loro programma Ancien Régime a completare la Restaurazione. Viene in mente il ritorno dei codini nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, con la differenza che qui non c’è stata rivoluzione né s’è visto un Napoleone.
Ma il richiamo storico più appropriato è Weimar, con i vecchi partiti di centrosinistra che nel 1932 riconfermano il vecchio e rincoglionito generale von Hindenburg, 85 anni, spianando la strada a Hitler. Qui per fortuna non c’è alcun Hitler all’orizzonte. Però c’è B., che fino all’altroieri tremava dinanzi al Parlamento più antiberlusconiano del ventennio e ora si prepara a stravincere le prossime elezioni e salire al Colle appena Re Giorgio abdicherà.
A meno che non resti abbarbicato al trono fino a 95 anni, imbalsamato e impagliato come certi autocrati, dagli iberici Salazar e Franco ai sovietici Andropov e Cernenko, tenuti in vita artificialmente con raffinate tecniche di ibernazione e ostesi in pubblico con marchingegni alle braccia per simulare un qualche stato motorio. Ieri, dall’unione dei necrofili di sinistra e del pedofilo di destra, è nato un regime ancor più plumbeo di quello berlusconiano e più blindato di quello montiano, perché è l’ultima trincea della banda larga che comanda e saccheggia l’Italia da decenni, prima della Caporetto finale. Prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone mononota a reti ed edicole unificate. Ne abbiamo avuto i primi assaggi nelle dirette tv, con la staffetta dei signorini grandi firme che magnificavano l’estremo sacrificio dell’Uomo della Provvidenza e del Salvatore della Patria, con lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati delle solite cariatidi. Le famose pompe funebri.
Ps. Da oggi Grillo ha una responsabilità infinitamente superiore a quella di ieri. Non è più solo il leader del suo movimento, ma il punto di riferimento di quei milioni di cittadini (di centrosinistra, ma non solo) che non si rassegnano al ritorno dei morti morenti e rappresentano un quarto del Parlamento. A costo di far violenza a se stesso, dovrà parlare a tutti con un linguaggio nuovo. Senza rinunciare a chiamare le cose col loro nome. Ma senza prestare il fianco alle provocazioni di un regime fondato sulla disperazione, quindi capace di tutto.

(Marco Travaglio)