martedì 21 maggio 2013

Sfruttamento stagionale (Mathilde Auvillain, Terra Eco, Francia)



Reportage dalla Puglia, dove i lavoratori africani vivono nelle baracche e sono pagati poco più di un euro per ogni quintale di pomodori raccolti.



All’uscita dell’autostrada a Foggia decine di camion pieni di casse di pomodori sorpassano ad alta velocità le poche auto che sembrano smarrite.
Tra le distese di colore giallo nella pianura che si estende tra la costa adriatica e le colline del Gargano, i camion lanciati a tutta velocità su strade dissestate sollevano nuvole di polvere. 
Quest’atmosfera da far west diventa lentamente più simile alla boscaglia africana. L’asfalto sparisce e lascia il posto a una strada dissestata. Gli ammortizzatori cigolano e le auto sobbalzano.
Due giovani maliani avanzano rapidamente a piedi, passando per i campi, per raggiungere il “Gran Ghetto”. È il nome che i lavoratori stagionali africani hanno dato a una baraccopoli che si trova nel mezzo della Capitanata, la regione agricola nel nord della Puglia. Una vera e propria cittadina, organizzata in baracche costruite intorno a pochi edifici abbandonati. Le baracche sono fatte con cartone, legno riciclato, spago e corda. Durante la stagione della raccolta dei pomodori qui ci vivono tra le ottocento e le mille persone, provenienti in gran parte dall’Africa occidentale.
L’oro rosso da qualche anno ha conquistato le terre della Capitanata. Una coltura molto più redditizia dei cereali che si coltivavano prima. Nella regione si raccolgono ogni anno duecentomila tonnellate di pomodori, che vengono poi trasformati in conserva e salsa e venduti in Italia e all’estero.
L’industria agroalimentare del pomodoro ha un volume d’affari di trecento milioni di euro all’anno. I lavoratori stagionali africani sono pagati 3,5 euro per ogni cassa con circa trecento chili di frutta e verdura, secondo il prezzo concordato con il “caporale”, che incassa un’ampia commissione sul raccolto. Sotto il comando del “capobianco” (il caporale bianco), che è il tramite tra l’agricoltore e l’industria di trasformazione, c’è il “caponero” (il caporale nero) che, grazie alla rete di contatti creata nel corso degli anni, organizza la formazione di squadre basandosi sulle sue conoscenze e sulla capacità di ogni uomo che gli si presenta davanti.
In una giornata di dieci ore di lavoro, un uomo robusto e allenato può riempire al massimo sei o sette casse. Gli stagionali guadagnano quindi in media tra i 20 e i 25 euro al giorno, dai quali devono detrarre circa 5 euro per il trasporto nei campi, 3,5 euro per un panino la sera, 1,5 euro per una bottiglia d’acqua e 20 euro al mese per l’affitto di un materasso in una baracca. “A mezzogiorno gli uomini non si fermano per mangiare. Ogni tanto, se hanno troppa fame, addentano un pomodoro”, spiega Ilaria Paluello, una volontaria dell’associazione Io ci sto, che assiste gli stagionali. Lei stessa viene accompagnata nei campi, di nascosto: “Quando il capo arriva nel campo, i lavoratori devono mettersi sull’attenti e salutarlo. A volte urla ‘Non ho sentito!’ e li costringe a ripetere più forte ‘Buongiorno capo!’”, racconta.


Dopo la giornata nei campi, i lavoratori tornano nelle baracche del Gran Ghetto: materassi sfondati appoggiati sul pavimento di terra battuta, qualche coperta stesa in mezzo alla polvere e vestiti appesi a ili di plastica.
Abdou riposa, è appena tornato da una dura giornata di lavoro. Gli altri, Mady, Bamba, Ousmane si lavano prima di uscire. Bimarlo aiuta la padrona nigeriana di un “ristorante” a uccidere una capra in mezzo alla spazzatura, sotto gli sguardi affamati dei cani randagi. Il sangue dell’animale morto si mescola all’acqua sporca delle docce. I locali che ospitano i bagni sono fatti nel migliore dei casi con quattro pareti di plastica, altrimenti con delle tende appese a dei paletti. Niente tubature, solo un secchio di plastica che prima deve essere riempito alla cisterna. Al Gran Ghetto non c’è acqua corrente né elettricità. Alcuni generatori rombano dietro le “case” dei più ricchi, che fanno pagare cinquanta centesimi per far ricaricare la batteria di un cellulare.
Il campo è stato costruito vicino ad alcuni casolari abbandonati. Spesso sono occupati abusivamente o gestiti da caporali neri. In Italia sono molti i braccianti che vivono in queste condizioni. Secondo l’Istat, il 43 per cento dei lavoratori del settore agricolo lavora in nero, circa 400mila persone di cui una su quattro è in stato di grave sfruttamento. Secondo il sindacato degli agricoltori Flai Cgil, ogni anno lo stato perde

circa 420 milioni di euro di tasse su questo lavoro sommerso. “Senza contare che l’assenza di tutele dei lavoratori, pagati meno della metà rispetto al salario medio legale, arricchisce la criminalità organizzata”, afferma un comunicato del sindacato. I caporali, infatti, sono spesso legati, direttamente o indirettamente, alle organizzazioni criminali.


“Fino a prova contraria, siamo un anello essenziale dell’agricoltura italiana. Da sud a nord, sono gli africani che lavorano nelle campagne! Ma le autorità si rifiutano di prendere atto di questa situazione, di riconoscere il nostro ruolo essenziale. Vogliono trattarci come persone di seconda classe”, si indigna l’ivoriano Ibrahim Diabaté, che da anni attraversa l’Italia seguendo le stagioni. Raccoglie pomodori a Foggia d’estate, pesche e mele a Saluzzo, in Piemonte, in autunno, arance e clementine a Rosarno, in Calabria, d’inverno. Più di un anno fa si trovava a Nardò, nel sud della Puglia, quando gli stagionali africani hanno deciso di scioperare.
Per due settimane gli uomini si sono rifiutati di andare a raccogliere i pomodori.
Quando la frutta ha cominciato a marcire sulle piante, i caporali hanno accettato di aumentare un po’ la paga dei lavoratori. Quella stessa estate del 2011, dopo lo straordinario sciopero dei “braccianti”, si è deciso di punire il caporalato introducendo nel codice penale il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Punito con una pena tra i cinque e gli otto anni di reclusione e con una multa da mille a duemila euro per ogni lavoratore sfruttato.
L’adozione di questa legge però non ha avuto molti effetti sulle condizioni di lavoro degli stagionali, a causa dell’assenza di controlli e perché gli stagionali, che spesso sono senza documenti, hanno paura a denunciare i caporali. La situazione di questi lavoratori conquista i titoli dei giornali solo in occasione di eventi straordinari, come lo sciopero di Nardò, o gli incidenti a Rosarno. Qui, una sera di gennaio del 2010, un marocchino,

un ivoriano e un togolese sono stati colpiti da proiettili ad aria compressa esplosi da un gruppo di abitanti. 
Il giorno dopo duemila immigrati hanno manifestato nel paese per protestare contro quell’aggressione.
Per alcuni giorni ci sono stati scontri tra la polizia, gli immigrati e gli abitanti, che si sono conclusi con il trasferimento dei migranti nei centri di identificazione ed espulsione di Napoli e Bari. Due anni dopo quei fatti, per evitare nuovi episodi di tensione, il governo ha installato una tendopoli nella zona industriale di Rosarno,
con acqua ed elettricità. Ignorando completamente le ragioni profonde che avevano spinto i lavoratori immigrati a piegarsi a simili condizioni di vita. 
La sera, dopo il lavoro, sotto la sua tenda blu, Babacar Cissé – che lavora a Rosarno e al Gran Ghetto – scrive poesie. Lo stesso fa Ibrahim Diabaté. A Boreano, Zak guarda dvd di cantanti africani. Tra le migliaia di immigrati che lavorano nei campi italiani, molti sono diplomati. Adou ha abbandonato gli studi di sociologia per venire in Europa. Commenta con amarezza: “Ai tempi della schiavitù agli africani venivano messe le manette e le catene, si usava la violenza. Oggi si cerca di rendere le cose meno dure, ma le catene sono sempre lì.
Sono le catene del permesso di soggiorno, del lavoro o dell’alloggio. Tutte cose che mancano e che ti rendono asservito”. Con Issouf, Ibrahim e Babacar, migliaia di africani si svegliano tutte le mattine all’alba per andare a lavorare nei campi e nei frutteti della Calabria e della Sicilia. Sono pagati 4 euro per trecento chili di frutta raccolta. Frutta che inisce nei mercati d’Italia e d’Europa a circa due euro al chilo.

(Mathilde Auvillain, Terra Eco, Francia)

Fonte: Internazionale 17/23 maggio 2013, N°1000






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