martedì 21 maggio 2013

La Siria e la paralisi dell’occidente (Natalie Nougayrède, Le Monde, Francia)



Il segretario di stato americano John Kerry ha annunciato un accordo con Vladimir Putin per preparare una conferenza internazionale sulla Siria in cui si incontreranno i rappresentanti del regime di Assad e gli emissari dei ribelli. In questo modo ha soddisfatto due antichi desideri della Russia: avere un posto in prima fila sullo scacchiere mediorientale e ottenere la rinuncia dell’occidente all’idea di realizzare un cambio di regime a Damasco. Nel fare concessioni a Mosca, Kerry si è spinto oltre, dichiarando che “non spetta a lui pronunciarsi” sull’allontanamento dal potere di Bashar al Assad come condizione preliminare a eventuali trattative.
Una notevole marcia indietro, se si pensa che in dall’agosto 2011, con dichiarazioni solenni e concordate, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania hanno chiesto le dimissioni del dittatore siriano.
Con più di 70mila morti e cinque milioni di sfollati e rifugiati, la Siria è la Bosnia del nostro tempo: un’eco straziante dell’impotenza dimostrata dalla diplomazia internazionale tra il 1991 e il 1995 di fronte alle peggiori atrocità nei Balcani.
È un marchio d’infamia e d’incapacità posto su quest’inizio secolo, se si pensa che nel 2011 l’occidente proclamava di voler sostenere le aspirazioni democratiche della primavera araba.
Gli Stati Uniti – dove il presidente Barack Obama è stato criticato per i suoi tentennamenti sulla “linea rossa”, quella da non superare, cioè l’uso di armi chimiche da parte di Damasco – hanno optato per rilanciare la diplomazia. Le trattative previste saranno quindi aperte a dirigenti di un regime che varie organizzazioni dell’Onu hanno formalmente accusato di “crimini contro l’umanità” così gravi da far finire i loro autori dritti sul banco degli imputati della Corte penale internazionale. Facile immaginare la soddisfazione di Bashar el Assad, appoggiato dai suoi alleati russi e iraniani.
Non si è certo fatta attendere la reazione indignata della coalizione dell’opposizione siriana, riconosciuta dalla Francia e da altri paesi come “unica legittima rappresentante del popolo” siriano.
Ora il nuovo piano russo-americano per la Siria viene salutato dagli europei stendendo un velo pietoso sulla marcia indietro che comporta. Il piano consiste nel riprendere un “comunicato”, negoziato a Ginevra nel luglio 2012 e dettato in gran parte da Mosca, che è riuscito nell’impresa semantica di mettere vittime e carnefici sullo stesso piano.
Che trama si sta dunque tessendo? Questo riavvicinamento russo-americano, in cui gli europei sono relegati in un ruolo secondario, si iscrive in un quadro complesso.
1. Il problema siriano, pur sanguinoso, è stato discusso dalle diplomazie sempre in relazione alla questione del nucleare iraniano.
2. I recenti raid israeliani contro alcuni siti siriani puntavano a dimostrare che lo stato ebraico difende le “sue” linee rosse. Queste non hanno nulla a che vedere con i crimini commessi in Siria, ma sono legate solo alla percezione di una minaccia alla sicurezza di Israele: mi riferisco all’organizzazione libanese Hezbollah, alleata dell’Iran e attiva in Siria. Quei raid erano dunque un messaggio indirizzato a Teheran e anche a Washington:
“Se le linee rosse sul nucleare iraniano non saranno difese meglio di quelle sulle armi chimiche in Siria, ce ne occuperemo noi”.
3. I raid israeliani sono stati rivestiti di una patina di legittimità con la diffusione di informazioni sul presunto uso di armi chimiche in Siria. È come se Israele stesse conducendo una mini-guerra preventiva nell’interesse di tutti, russi compresi. E la diplomazia russa, infatti, ha reagito a quei raid
con inconsueta moderazione.
4. La conferenza internazionale sulla Siria, voluta da Obama, prefigura il trattamento che il presidente americano intende riservare al dossier del nucleare iraniano. In un certo senso si tratta di un test: per Obama, ben deciso a evitare nuovi “pantani” al suo paese, l’opzione militare resta uno spauracchio.
Il successore di George W. Bush è tuttora ossessionato dallo spettro della guerra in
Iraq, con il suo strascico di menzogne sulle armi di distruzione di massa.

Nell’estate del 2012 Hillary Clinton, ancora segnata dalla tragedia bosniaca, aveva cercato di convincere Obama che bisognava fornire armi ai gruppi di ribelli siriani per modfiicare i rapporti di forze sul campo. È la stessa posizione poi adottata da Parigi e Londra, anche se oggi con minore entusiasmo.
Ora John Kerry è stato incaricato di adottare un atteggiamento meno offensivo. Si capisce: le crisi mediorientali sono incastrate l’una nell’altra come matrioske, e l’occidente rischia di perdere credibilità cercando di sbrogliare questa matassa politico-diplomatica. È per questo che l’espressione “linea rossa” è stata svuotata di ogni senso. Ed è per questo che i civili siriani continuano a subire una tragedia all’ombra di un problema strategico considerato più grave del lor martirio: il caso iraniano e il pericolo di una proliferazione nucleare in Medio Oriente.


(Natalie Nougayrède è la direttrice del quotidiano francese Le Monde.)


Fonte: Internazionale 17/23 maggio 2013, N°1000

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