sabato 25 maggio 2013

La terza leva del potere (The Economist, Regno Unito)




Internet e le tecnologie possono essere strumenti ideali per controllare le masse.  Tre libri spiegano come e perché.



Silicon valley è sinonimo di splendore, tanto nelle previsioni del tempo quanto in quelle economiche. I giovani vanno a lavorare in pantaloni corti, guadagnano stipendi a sei cifre e dichiarano spensieratamente di voler rendere il mondo “più aperto e più connesso”.
Tre nuovi libri, tra cui due di esperti del settore, mostrano che si è aggiunto un nuovo ingrediente alla già potente miscela di giovanilismo e ottimismo dell’industria tecnologica: il potere. Evgeny Morozov, che sostiene di guardare questo settore dall’esterno, è un severo critico delle vanità della Silicon valley. 
Il suo primo libro, L’ingenuità della rete (Codice), smontava la tesi secondo cui la tecnologia e i social network sarebbero in sé positivi per la democrazia. Al contrario, per Morozov la tecnologia è lo strumento ideale per gli stati repressivi che vogliono controllare i loro cittadini. Il suo nuovo, discontinuo, libro, To save everything, click here, va oltre.
L’autore attacca i fanatici della tecnologia convinti di poter rimediare ai mali del mondo “riducendo complesse situazioni sociali a problemi definiti in modo netto”.
Per Morozov questo atteggiamento è arrogante. L’ossessione della Silicon valley per i dati – un approccio quantitativo alla risoluzione dei problemi adottato, tra gli altri, da Google – ignora le sottili distinzioni e il pensiero analitico. Se permettiamo agli smanettoni di governare il mondo, la gente co comincerà a postare il contenuto dei propri secchi della spazzatura su Facebook, controllandosi a vicenda in tempo reale in nome dell’efficienza e della scienza. È un potere esercitato in maniera sconsiderata. Morozov è noto per i suoi attacchi ai colleghi e molti lo liquidano come un fanatico in cerca di attenzione. Un certo tono sarcastico e supponente nuoce ai suoi stessi argomenti, cosa che certo non può essere detta di Jaron Lanier, un informatico che contribuì alla diffusione del termine “realtà virtuale” e che oggi lavora per la Microsoft.

Come Lanier ammette più volte nel corso del suo libro, Who owns the future?, lui stesso è parte della realtà che critica, e beneficia in prima persona dalla sua partecipazione attiva
al sistema a cui vorrebbe mettere fine. Il punto di vista di Lanier ha ricevuto impulsi anche dalla sua attività parallela di musicista. Invece di aprirci le porte di una nuova era di prosperità, dice, l’industria tecnologica sta rendendo il mondo più povero. I lavori nei settori creativi, come la musica e la scrittura, stanno sparendo, perché comunicare e fare copia e incolla è sempre più semplice. Una fine che toccherà anche ad altri settori. 
Secondo Lanier è colpa dell’architettura del web. Il sistema è costruito per convincere gli utenti a dare accesso ai loro dati in cambio di servizi gratuiti, come la posta elettronica. Un patto che fa il gioco delle grandi aziende, da lui definite “sirene”, per l’attrazione irresistibile che esercitano. Mentre loro ingrassano al ritmo dei dati consegnati dagli utenti, la gente normale si impoverisce.
Lanier propone una soluzione radicale: se l’informazione vale soldi (e la crescita delle aziende che vendono dati sembra confermarlo), la gente dovrebbe essere pagata per il suo contributo. Nel complesso sistema che Lanier ha in mente, servizi come Facebook non dovrebbero più essere gratuiti, ma dovrebbero anche smettere di ottenere dati senza pagarli. Per ammissione dello stesso autore, però, è una proposta piuttosto difficile da realizzare.


Se il libro di Mozorov si fonda sulla teoria e quello di Lanier sull’esperienza personale, Eric Schmidt e Jared Cohen basano il loro lavoro, The new digital age, su una vasta e dettagliata ricerca. Schmidt è presidente ed ex amministratore delegato di Google. Cohen è un ragazzo prodigio del dipartimento di stato che ora dirige il centro studi interno di Google. Le loro idee sono ambiziose ed espresse in un linguaggio sobrio. 
In futuro l’intelligenza artificiale e i robot controllati con il pensiero saranno familiari. Anche  le automobili senza conducente e la realtà aumentata stanno già diventando tecnologie di consumo. Dopo aver accennato ad “avatar olografici” ed “elicotteri automatici”, gli autori si concentrano su come la tecnologia trasformerà le strutture di potere.
I governi che tendono a negare le inevitabili trasformazioni dovranno combattere per controllare i loro cittadini. Gli autori fanno l’esempio dell’Egitto. Il 28 gennaio 2011 Mubarak aveva chiuso l’accesso a internet alle prime avvisaglie della protesta. 
La mossa ha spinto gli attivisti a riversarsi nelle strade, accelerando forse la fine del regime. Fermare la rete è probabilmente una decisione ingenua, ma controllarla può essere molto efficace. È quello che fanno Cina e Iran. Altri paesi agiscono in modo più sottile. Come la Turchia, che aggiusta costantemente i livelli di censura in base al capriccio delle autorità o alle richieste pubbliche. Gli autori lo chiamano filtro “imbarazzato” del web. 
Mentre i governi cercano di scendere a patti con i cambiamenti provocati dai servizi gratuiti offerti da aziende come Google – servizi che gli egiziani, a differenza degli statunitensi, potrebbero non essere più in grado di permettersi se il sistema di pagamento universale di Lanier entrasse in vigore – la rete è destinata a frantumarsi sempre di più e a essere balcanizzata. Cohen e Schmidt prevedono un tetro futuro che potrebbe includere anche reti nazionali blindate, accessibili solo con documenti d’identità digitali. 
In una certa misura internet è già divisa, con i regimi oppressivi che limitano l’accesso al resto del mondo e le barriere linguistiche che rendono alcune reti, come la russa Runet, ecosistemi a parte. 
La preoccupazione più diffusa è quella per la guerra cibernetica che, usando i server proxy, offre agli stati la possibilità di negare le proprie responsabilità. Gli attacchi informatici stanno diventando sempre più comuni e Cina e Stati Uniti sono i due maggiori provocatori. L’anno scorso, il documento di una commissione parlamentare britannica esortava a usare tecniche di ciberguerra per accedere alle reti nemiche “senza essere scoperti (o almeno senza essere identificati)”. 
La sicurezza virtuale, sostengono Cohen e Schmidt , diventerà un tema sempre più caldo nei prossimi anni.
The new digital age è un’opera ponderata. Nonostante il ruolo dei due autori, non veicola la propaganda della Silicon valley, anche se tradisce un po’ della solita arroganza del settore. Ma soprattutto eleva il dibattito sulla tecnologia: invece di chiedersi se le ultime app sono davvero utili, affronta la ben più vasta questione di come la tecnologia interagisce con il potere.
Come sottolinea Lanier, le industrie leader del settore hanno accumulato un grande potere, in parte grazie agli algoritmi derisi da Morozov, con cui possono ordinare e analizzare le informazioni. Schmidt e Cohen dimostrano che questo potere può essere usato con intelligenza. Per secoli il mondo è stato tenuto in ordine attraverso le leve della religione e dello stato. Ora, segnalano questi libri, è in arrivo una terza forza.





(The Economist, Regno Unito)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

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