sabato 25 maggio 2013

Le televisioni arabe non fanno la rivoluzione (Elias Khoury)




La nascita di Al Jazeera, la televisione del Qatar, è stata una rivoluzione per l’informazione del mondo arabo. La sua fondazione ha coinciso con il crollo dei due principali centri dell’informazione nel Medio Oriente: l’Egitto, dove giornali e tv sono stati messi fuori gioco dalla lunga dittatura di Hosni Mubarak, e il Libano, dove i mezzi d’informazione hanno assunto posizioni molto polarizzate a seconda della loro ailiazione settaria o religiosa. 
Quella di Al Jazeera e delle altre emittenti finanziate dai paesi del golfo Persico è stata una rivoluzione inaspettata. Con una patina di liberalismo e professionalità improntata alla Bbc, queste tv si sono affermate proponendo un nuovo linguaggio politico.
All’inizio sembrava di assistere a un miracolo. Era come se gli arabi avessero una Cnn tutta per loro, che portava un fresco vento di libertà. Poco dopo Al Jazeera è nata anche Al Arabiya, una rete finanziata dai sauditi con sede a Dubai.
Le due reti hanno saputo monopolizzare l’informazione politica del mondo arabo, soprattutto con il susseguirsi incalzante di notizie che ha accompagnato lo scoppio delle rivoluzioni arabe. Per anni è sembrato che l’unico scopo delle due reti fosse accompagnare gli arabi verso la modernità e far nascere un’informazione democratica, superando i tabù imposti non solo dalle dittature ma anche dai potenti mezzi d’informazione statunitensi. Le illusioni sono svanite appena è diventata evidente una certa vicinanza all’islam politico (accompagnata dalla proliferazione di programmi politico-religiosi conservatori, come quelli del predicatore egiziano-qatariota Yusuf al Qaradawi). Era la conferma che dietro l’etichetta di “democratico” si nascondeva un progetto difficile da decifrare per riallacciare i rapporti tra organizzazioni islamiche e Stati Uniti, e superare l’eredità dei sanguinosi attentati dell’11 settembre 2001.
Questi programmi non hanno però intaccato l’entusiasmo delle masse arabe, che su queste nuove tv potevano trovare anche voci liberali e a sostegno della resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Quando, all’inizio del 2011, sono scoppiate le rivolte arabe la situazione ha cominciato a chiarirsi.
In Siria il regime di Bashar al Assad ha proibito ai giornalisti stranieri di entrare nel paese, convinto che occultare la verità sull’enorme rivolta popolare che aveva investito città e campagne fosse la scelta più giusta. Inoltre Assad ha tentato in da subito di smentire le notizie sulla repressione, difondendo false informazioni sui ribelli siriani, che documentavano le loro imprese con i video su Facebook. In Siria la dittatura ha scompaginato l’informazione e la verità è stata la prima vittima del conflitto.
Presto si sono scoperte altre carte. Con Al Jazeera il Qatar ha sostenuto gli islamisti e i Fratelli musulmani in tutta la regione. Dal canto loro i mezzi d’informazione sauditi si sono trovati spiazzati, da un lato, per la tradizionale ostilità tra Fratelli musulmani e wahabiti (la corrente dell’islam dominante in Arabia Saudita), dall’altro, perché i salafiti, sostenuti da Riyadh, non sono riusciti a creare un’alternativa politica ai Fratelli musulmani e alle correnti liberali e di sinistra.
Come mai dunque Al Jazeera non ce l’ha fatta a diventare la nuova voce del mondo arabo libero né Al Arabiya una voce in difesa della democrazia? Innanzitutto perché quando gli arabi sono scesi in piazza l’hanno fatto per rivendicare libertà e democrazia, perciò è inverosimile che stati che governano territori ancora privi di una costituzione scritta siano
in grado di guidare una rivoluzione democratica. Inoltre, né il Qatar né l’Arabia Saudita potranno mai incubare un progetto rivoluzionario, qualunque esso sia. 
I regimi ultraconservatori del golfo Persico, il cui potere è strutturato secondo una rigida gerarchia, non potranno mai rappresentare un modello per i popoli che hanno spezzato le catene della dittatura alla ricerca di un orizzonte democratico e nazionale.
Qual è il senso di questo discorso? Vuol dire che noi, intimoriti dalla crescente influenza dei paesi del golfo Persico, dobbiamo ripensare le nostre valutazioni sulla rivoluzione siriana? No: la rivoluzione siriana va letta in primo luogo come una rivoluzione popolare contro la dittatura. È una rivoluzione che i siriani hanno cominciato da soli, senza ricevere all’inizio nessun aiuto esterno. Il sostegno straniero – che sia di tipo politico, economico, mediatico o militare – non basta a fare una rivoluzione. Anzi, oggi i giochi di potere esterni sono solo degli ostacoli, che permetteranno all’agonizzante regime di Damasco di prolungare la sua sopravvivenza.
La regressione dei mezzi di informazione invece ci fa riflettere sull’orizzonte culturale arabo, che dovrebbe stare al passo con l’impulso rivoluzionario e cercare di rinnovarsi a partire dai suoi centri: l’Egitto, la Siria e la Tunisia. Per le élite democratiche non rispondere a questa sfida significherebbe rifiutare la maggiore opportunità di rinascita culturale araba degli ultimi duecento anni. 

(Elias Khoury è uno scrittore nato a Beirut nel 1948, uno dei più importanti
autori in lingua araba. È il direttore della rivista Al Dirasat al Falestiniyya. Scrive una column settimanale per il quotidiano panarabo Al Quds al Arabi.)


Fonte: Internazionale 24/30 maggio 2013, N°1001

Nessun commento:

Posta un commento