sabato 5 gennaio 2013

Il monopolio è un furto (Christopher Ketcham)




A Monopoli vince chi si accaparra le proprietà più redditizie. Ma in origine il gioco da tavolo più famoso del mondo voleva insegnare a combattere i monopolisti.

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Secondo la versione ufficiale raccontata dalla Hasbro, titolare del marchio, il Monopoli fu inventato nel 1933 da un radiatorista disoccupato e dog sitter a ore di Filadelfia, Charles Darrow. 
Darrow voleva inventare un gioco ispirato all’acquisto e alla vendita di terreni, e diede alle varie proprietà dei nomi presi in prestito da Atlantic City, la città di mare dove andava in vacanza da bambino. 
Brevettato nel 1935 da lui e dalla Parker Brothers che lo realizzò, nei primi due anni di produzione il gioco vendette più di due milioni di copie, rendendo ricco Darrow e probabilmente salvando dal fallimento la Parker Brothers. In seguito è diventato il gioco da tavolo brevettato più venduto nel mondo. 
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La letteratura ufficiale non ha mai citato le vere origini del gioco.
Trent’anni prima che Darrow lo brevettasse, nel 1903, un’attrice del Maryland di nome Lizzie Magie aveva creato un protoMonopoli come strumento per diffondere la filosoia di Henry George, uno scrittore dell’ottocento convinto che nessun individuo potesse rivendicare la “proprietà” della terra. 
Nel suo libro Progress and poverty (1879) George deiniva il concetto di proprietà fondiaria “sbagliato e pericoloso” e sosteneva che a possedere la terra dovesse essere la società come “soggetto collettivo”.
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In quella prima edizione, le proprietà più costose da comprare, e le più convenienti da possedere, erano strade famose di New York come Broadway, Fifth avenue e Wall street. Al posto del “Via” c’era un riquadro con la scritta “Lavorare la madre terra produce salario”. 
Il meccanismo era quello del Monopoli: tutti i partecipanti si indebitavano e prima o poi fallivano, tranne uno, il supermonopolista, che alla fine vinceva. 
Ma i giocatori potevano prendere un’iniziativa che non è prevista dalle regole del Monopoli di oggi: decidere di collaborare. Non avrebbero pagato l’affitto a un singolo proprietario, ma avrebbero messo la somma in una cassa comune e, come scrisse Magie, “tutti si sarebbero garantiti la prosperità”.
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Henry George non aveva studiato economia.A 16 anni era stato assunto come mozzo
e aveva lasciato Filadelia a bordo del mercantile Hindoo, diretto verso l’Australia e l’India. In viaggio aveva assistito a un tentativo di ammutinamento a causa delle terribili condizioni di lavoro dei marinai. A vent’anni, ormai trapiantato in California, lavorava come apprendista tipografo, pesatore di riso e bracciante a ore. Poco dopo si sposò, ma rimase senza lavoro a causa della crisi dell’occupazione che colpì la costa occidentale.
Nell’inverno del 1865 sua moglie era incinta e moriva di fame. “Non perdete tempo a lavarlo”, disse il dottore a George quando a gennaio nacque il bambino. “Dategli da mangiare”. La povertà lo portò a interessarsi di economia, a riflettere sul perché fosse tanto diffusa in un paese così ricco di risorse. A sua volta, questo lo spinse a rivolgersi ai giornali, che immaginava potessero pagarlo per le sue idee. 
E alla fine il giornalismo lo portò a  New York.
Quello che sconcertava George era che dovunque venissero introdotti mezzi di produzione più avanzati – dovunque fiorissero industrie e si accumulassero capitali – c’erano sempre più persone povere che vivevano in condizioni disperate. Per lui era un paradosso incomprensibile. “È l’enigma che la Sfinge del Fato pone alla nostra civiltà e se non troveremo la risposta saremo annientati”, scriveva. “Finché tutta la ricchezza creata dal progresso
moderno servirà solo a costruire grandi patrimoni quel progresso non sarà reale e non potrà essere duraturo”. 
Nel 1879 pubblicò il libro che lo avrebbe reso famoso, Progress and poverty, che forniva una risposta radicale all’enigma: il motivo per cui il progresso portava una maggiore povertà era il monopolio sulla terra.
Negli Stati Uniti, con il progredire della civiltà, l’aumento della popolazione e l’inurbamento, i terreni avevano cominciato a scarseggiare, il loro prezzo era salito e la maggioranza che doveva viverci e lavorarci era costretta a pagare quel prezzo alla minoranza che li possedeva. Per la classe lavoratrice, la conseguenza era la schiavitù dell’affitto. “Per vedere esseri umani che vivono nelle condizioni più abiette e disperate”, scriveva George, “non bisogna andare nelle sconfinate praterie e nelle capanne di legno costruite nei boschi, dove l’uomo comincia la sua lotta con la natura e la terra non vale ancora nulla, ma nelle grandi città, dove la proprietà di un piccolo appezzamento di terreno costituisce una fortuna”.
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Da quei piccoli appezzamenti, soprattutto a New York, erano nate le dinastie de nuovi ricchi americani.
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Secondo George, l’accumulo di terreni in mani private era il prodotto di un sistema di proprietà “artificiale e infondato quanto il diritto divino dei re”. “Sia dal punto di vista storico sia da quello etico”, scriveva, “la proprietà privata della terra è un furto. Ha sempre avuto origine dalle guerre e dalle conquiste”. Quello era, in realtà, il peccato originale della civiltà occidentale. George osservava che molte civiltà premoderne non riconoscevano il diritto di proprietà sulla terra. 
Un uomo possedeva solo l’arco e le frecce che aveva costruito con le sue mani, non la terra sulla quale cacciava. Un simile diritto non esisteva nemmeno nel Vecchio testamento, che “trattava la terra come un dono del Creatore alle sue creature”.
Dopotutto, Mosè aveva istituito il giubileo: ogni cinquant’anni la terra veniva ridistribuita e i debiti contratti su di essa venivano cancellati, una tradizione alla quale avevano messo ine i romani. 
Negli annali del mondo precapitalistico, George aveva riscontrato ovunque “il conflitto tra l’idea che tutti hanno gli stessi diritti sulla terra e la tendenza a monopolizzarla trasformandola in proprietà privata”.
Ma nell’ottocento il “preconcetto” della “proprietà individuale della terra”, raforzato dal complesso insieme di diritti e titoli concessi dallo stato, era diventato la base del sistema legale statunitense. Secondo George, non poteva e non doveva essere eliminato. La conisca delle terre e la nazionalizzazione avrebbero portato alla tirannia. “Lasciamo che gli individui che oggi ne godono mantengano, se vogliono, il possesso di quelle che amano chiamare le loro terre”. 
George non pensava che fosse necessario abolire il diritto di comprare e vendere una proprietà o di lasciarla in eredità ai propri discendenti. Sosteneva piuttosto che la società avrebbe dovuto lasciare ai possidenti “il guscio” delle loro terre e prenderne “il frutto”. Scriveva: “Non è necessario confiscare le terre, basterebbe confiscarne la rendita. In questo modo lo stato diventerebbe in pratica padrone di tutte le terre senza esserlo formalmente”.
Quello che contava era la rendita. 
In linea con l’economia classica di Adam Smith, George deiniva rendita il reddito da capitale derivato unicamente dall’aumento di valore della terra, e quindi distinto dal lavoro investito su di essa sotto forma di migliorie, costruzione di case, uici e fabbriche o coltivazione di campi. A valorizzare la terra era la mano invisibile del lavoro di una comunità. La capanna diventava preziosa quando veniva scoperta una miniera nella zona, costruita una strada principale che la collegava alla miniera, aperto un negozio che vendeva provviste per i minatori, quando venivano costruite altre case, arrivava la ferrovia e nasceva una città. Il terreno su cui sorgeva la capanna derivava il suo valore da quello che la società ci aveva costruito intorno. Quindi quell’aumento di valore spettava alla società, e secondo George doveva essere calcolato e tassato a prezzo di mercato. 
Questa “tassa unica” sulla terra e sulle risorse naturali era un modo per riformare il capitalismo, che George pensava di dover salvare dall’autodistruzione, e “aprire la strada alla realizzazione del nobile sogno socialista”. 
I ricchi proprietari terrieri dell’epoca accusarono il georgismo di essere la teoria più folle ed estremista dei suoi tempi, e consideravano l’idea della tassa unica più pericolosa di tutti gli scritti di Karl Marx messi insieme. La chiesa cattolica deinì il pensiero di George “degno di condanna”. 
Tuttavia, a cinque anni dalla pubblicazione di Progress and poverty centinaia di migliaia di statunitensi sarebbero arrivati a credere nel vangelo della tassa unica. A New York, il prete populista Edward McGlynn deiniva George “un profeta, un messaggero di Dio”. Mark Twain e il filosofo John Dewey erano georgisti. 
Lev Tolstoj sosteneva che George aveva “inaugurato una nuova era”. “Il metodo per risolvere il problema della terra è stato elaborato da Henry George a un tale livello di perfezione che, con l’organizzazione dello stato e il sistema di tassazione obbligatoria attuali, è impossibile concepire una soluzione migliore, più giusta, pratica e pacifica”, scriveva Tolstoj.
“L’unica cosa che placherebbe il popolo in questo momento sarebbe l’introduzione del sistema di Henry George”.
Nel 1886 lo United labor party (Ulp), appena uscito dalle battaglie della prima Festa del lavoro, scelse George come candidato per la carica di sindaco di New York.
La campagna elettorale fu estremamente radicale per l’epoca: dovunque le ferrovie,
i telegrafi, i telefoni, e le forniture di gas, elettricità e acqua potevano funzionare in
modo più efficiente in un’economia di scala,  come “monopoli naturali”, sarebbero stati di proprietà pubblica. A New York i trasporti sarebbero stati gratuiti e l’amministrazione
comunale si sarebbe fatta carico dei servizi sociali. George avrebbe messo fine al lavoro minorile e imposto la giornata lavorativa di otto ore. 
Il suo programma sarebbe stato inanziato dalla tassa sul valore della terra. Anche se nessuno dei gran di giornali lo appoggiò, furono fondati circoli a suo nome in 24 distretti della città. 
Gli iscritti inanziarono la campagna elettorale contribuendo ognuno con 25 centesimi. 
La coalizione che si formò intorno all’Ulp superava le divisioni di classe, etnia e religione che dominavano a New York. Tre giorni prima delle elezioni, i suoi sostenitori si raccolsero a migliaia nella zona sud di Manhattan portando striscioni con la scritta:
“I lavoratori onesti contro i proprietari terrieri ladri”, e a Tompkins square, sotto la pioggia battente, intonarono slogan come “Abbasso le sanguisughe”. Ma George fu sconfitto, e ci furono anche sospetti di brogli Henry George tornò al giornalismo, tenne conferenze, scrisse altri cinque libri e si dedicò alla diffusione del vangelo della tassa unica. 
Ebbe anche il merito di ispirare tutta una generazione di riformatori progressisti.
Ma dimostrava poco interesse per tutte le riforme che non fossero la tassa unica.
Fedele alle teorie di Adam Smith fino alla ine, attaccò i socialisti e i sindacalisti che
 erano i suoi maggiori sostenitori e, come scrisse un suo critico, si mise alla testa di un gruppo di sostenitori della tassa unica caratterizzati da “uno spirito insopportabilmente dogmatico e dottrinario”.
Non accettò mai che il reddito da capitale provenisse da investimenti che non fossero sulla terra, e di conseguenza fu accusato di non voler prendere atto del crescente potere del capitalismo finanziario, che creava ricchezza grazie al valore attribuito dalla società a titoli e azioni.
Alla sua morte, nel 1897, quando centomila newyorchesi fecero la fila per rendere onore alla sua salma, la “grande idea” di George, come avrebbe scritto con rimpianto Tolstoj nel 1908, aveva già imboccato la lunga strada dell’oblio.
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Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

(Christopher Ketcham, Harper’s, Stati Uniti)

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