martedì 1 gennaio 2013

Il dibattito sulle armi in Usa (Los Angeles Times, The Observer, The New York Times)




Il paese sta cercando di riprendersi dall’orrore della strage del 14 dicembre 2012 in una scuola elementare
di Newtown, in Connecticut, dove un uomo è stato capace di uccidere a sangue freddo venti bambini e sei adulti. 
Intanto i politici hanno invaso i telegiornali. Il sindaco di New York, Michael Bloom berg, e la senatrice democratica della California, Barbara Boxer, chiedono leggi più severe sul controllo delle armi. Ovviamente molti politici conservatori che difendono il diritto di girare armati li accusano di opportunismo, sostenendo che subito dopo una tragedia non è il caso di parlare di politica. 
Ma in una democrazia succede spesso che siano proprio le catastrofi a innescare il cambiamento.

Quando si parla di controllo delle armi emergono sempre due questioni importanti.
La prima è se esiste veramente una legge in grado di impedire le stragi, che negli Stati Uniti hanno ormai raggiunto proporzioni epidemiche. La seconda è se è possibile che una legge del genere sia approvata a livello federale. Alla prima domanda si può rispondere probabilmente sì. Alla seconda, probabilmente no.

Nel corso degli anni sono state proposte molte leggi ragionevoli che avrebbero reso più difficile per gli individui pericolosi ottenere armi o che avrebbero messo al bando quelle armi che servono solo a compiere stragi. Il governo potrebbe, per esempio, chiudere la scappatoia delle fiere delle armi, che permettono a persone non autorizzate di vendere armi usate senza indagare su chi le compra. 
Inoltre il governo potrebbe rafforzare il sistema dei controlli per cercare in modo più approfondito le prove
di disturbi mentali nei potenziali acquirenti. Potrebbe vietare la vendita di armi d’assalto dotate di grossi caricatori, che servono solo a chi ha intenzione di uccidere molte persone in poco tempo.
(...)
Anche se ci piacerebbe che le leggi statunitensi sul controllo delle armi fossero più sensate, non le avremo presto. È improbabile che i liberal delle grandi città come la senatrice Barbara Boxer riescano a superare l'opposizione dei repubblicani e dei democratici moderati al senato. E l’idea che i repubblicani, in maggioranza alla camera dei rappresentanti, facciano qualcosa per limitare il possesso di armi è pura fantasia.
Finora il presidente Barack Obama non è sembrato disposto a spendere il capitale politico necessario per mettere al centro del dibattito nazionale una seria riforma delle leggi sul possesso di armi. Tenetevi
stretti i vostri figli e proteggeteli meglio che potete, perché è improbabile che lo facciano i politici.

(Los Angeles Times, Usa)





(...) Negli ultimi quarant’anni il programma politico portato avanti dalla destra statunitense ha puntato alla privatizzazione del diritto individuale a possedere i mezzi per uccidere, alimentando un’eccezionale proliferazione di armi leggere.
Anche se gli Stati Uniti non si possono certo definire uno stato fallito, sotto questo aspetto ne mostrano tutte le caratteristiche: gli statunitensi possiedono in media il doppio delle armi rispetto agli abitanti di un paese instabile come lo Yemen, che è al secondo posto nella classifica mondiale per numero di armi procapite.
Al centro del problema c’è il tentativo, in corso dalla metà degli anni settanta, fatto dalla destra e dalla lobby dei produttori di  armi, di reinterpretare il secondo emendamento della costituzione – concepito per assicurare la difesa collettiva sotto forma di milizie “ben regolamentate” – trasformandolo in un diritto individuale, moderno e assoluto.
Questo processo è giunto a compimento di recente, quando la corte suprema a maggioranza conservatrice ha emesso due sentenze che riaffermano questa interpretazione del secondo emendamento. 


In tutto questo c’è un aspetto paradossale, ben evidenziato dalla storica Jill Lepore in un’analisi della storia del controllo della vendita di armi pubblicata sul New Yorker: la percentuale di proprietari di armi tra i cittadini statunitensi è in calo costante da molti anni. Tra il 1985 e il 2010 la percentuale dei possessori di armi da fuoco sul totale della popolazione è scesa da circa un terzo ad appena il 20 per cento.
Eppure gli Stati Uniti rimangono il primo paese al mondo per numero di armi da fuoco in circolazione (quasi una a testa), perché chi le possiede non si limita a comprarne una sola.
Dal punto di vista politico il possesso di armi è una questione che riguarda una minoranza.
Ma gli statunitensi che le possiedono – prevalentemente maschi bianchi di età avanzata – stanno monopolizzando il dibattito nazionale. Obama ha un’occasione storica. Il dibattito sulla strage nella scuola di Newtown ricorda la reazione dell’opinione pubblica britannica alle stragi di Hungerford, nel 1987, e di Dunblane, nel 1996, che hanno portato a due importanti riforme in materia di armi: la messa al bando delle armi semiautomatiche e l’estensione del divieto alle pistole di piccolo calibro.

(...) 
Negli Stati Uniti il numero di morti per ferite da arma da fuoco – più di trentamila all’anno – supera quello delle vittime del conflitto in Siria nello stesso periodo. Fino a quando non guarderanno in faccia la real tà
– cioè che la politica sulla proprietà e la detenzione di armi da fuoco è fallimentare – gli Stati Uniti continueranno a vivere un incubo ricorrente, condannati ad assistere allo stesso orrore del 14 dicembre alla scuola elementare di Newtown.

(The Observer, Regno Unito)





(...) possiamo calcolare la frequenza con cui alcune frasi e parole sono state usate sui quotidiani, secondo il database Newslibrary.com. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento di tono nel dibattito pubblico. L’espressione gun control (controllo delle armi) è molto meno usata rispetto a dieci o venti anni fa, mentre gun rights (diritto alle armi) è impiegata più spesso. Sempre più di frequente si cita il second amendment (secondo emendamento) della costituzione. 
(...)

Il cambiamento di linguaggio rilette la polarizzazione del dibattito. Espressioni relativamente neutre come gun control sono usate sempre meno, contrariamente a quelle politicamente più connotate come gun violence e gun rights. Probabilmente chi vuole limitare il possesso di armi ha capito che l’argomentazione più efficace è
sottolineare le conseguenze dell’accesso indiscriminato alle armi, piuttosto che alimentare il dibattito intorno al secondo emendamento. Invece per chi si oppone a leggi più severe il dibattito s’incentra sempre di più sulle garanzie costituzionali. Spesso chi è contrario all’introduzione di controlli sostiene anche che i tentativi di
limitare il possesso di armi sarebbero controproducenti o non ridurrebbero la violenza. Ma in generale preferirebbe che il dibattito s’incentrasse su quelli che considera diritti costituzionalmente garantiti. Probabilmente la strategia ha funzionato. I sondaggi indicano che negli ultimi anni l’opinione pubblica ha assunto una posizione più ambigua sulle misure di controllo. Alcuni pensano che la costituzione dia ampia facoltà di possedere e portare le armi, anche se le conseguenze a volte possono essere tragiche.


(Nate Silver, The New York Times, Stati Uniti)



Fonte: Internazionale, 21/27 dicembre, N°980

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