giovedì 6 settembre 2012

Le cattive ragazze di Mosca (Julia Iofe )



La mattina del 21 febbraio, a Mosca, Nadežda Tolokonnikova, Maria Alëkhina ed Ekaterina Samutsevič si sono avvicinate all’altare della cattedrale di Cristo Salvatore, si sono sfilate gli abiti invernali, hanno indossato dei passamontagna colorati e per quaranta secondi si sono messe a saltare tirando calci e pugni in aria. La sera stessa le tre ragazze hanno trasformato il tutto in un video musicale intitolato Preghiera punk. Madre santa, caccia via Putin, un modo per contestare il patriarca ortodosso e il presidente russo. Su internet il video si è diffuso come un virus.

Tre giorni dopo, contro le tre ragazze è stato emesso un mandato d’arresto. Stando all’atto di accusa, il loro processo prometteva di diventare un passaggio decisivo nella storia della cristianità: ufficialmente le ragazze
sarebbero state processate per teppismo, ma il procuratore ha spiegato che erano accusate di “aver insultato l’intero mondo cristiano”.

La preghiera punk rientra in una serie di performance che prendono di mira i simboli del regime, passato e presente. Le ragazze hanno spiegato di aver scelto la cattedrale di Cristo Salvatore perché a loro avviso
è stata trasformata in un centro commerciale e soprattutto per la decisione del patriarca Kirill di esortare i fedeli a votare Putin alle elezioni del 4 marzo 2012.

L’obiettivo delle Pussy Riot era lanciare una provocazione alla società russa. Ben presto, però, il gruppo ha scoperto che Vladimir Putin era determinato a imporre la sua estetica politica.

Il 30 luglio, nella prima giornata del processo, che si è aperto con le dichiarazioni delle imputate lette dai loro avvocati difensori, tutto è sembrato finalmente chiarirsi.
Le tre giovani hanno presentato le loro scuse ai fedeli che avevano offeso. Le tre Pussy Riot, che ogni tanto si appisolavano chiuse nella loro gabbia, si sono sentite accusare dallo stato russo di essere “motivate dall’odio religioso”, di “avere assunto una posizione cinicamente contraria al mondo ortodosso”, di aver “tentato di sminuire secoli di dogmi riconosciuti e venerati” e di aver “violato i diritti e la sovranità della chiesa
ortodossa”. Nel testo dell’accusa si legge anche che le ragazze hanno scosso “le fondamenta spirituali” della Federazione russa. Strano, avevamo la netta impressione che la Russia fosse uno stato laico.

Quando la giudice ha chiesto alle ragazze se si dichiaravano colpevoli o innocenti, Maria Alëkhina ha risposto che non capiva nemmeno in cosa consistessero le accuse. Alla seconda giornata di dibattimento il processo era ormai diventato un motivo d’imbarazzo per tutti. 
Perfino per i fedelissimi di Putin. Un esponente del partito di governo, Russia unita, ha scritto nel suo blog che, pur sentendosi offeso dall’esibizione delle Pussy Riot, sapeva bene che “un atto d’accusa basato sul canone ecclesiastico ortodosso del cinquecento avrebbe reso il paese lo zimbello del mondo intero”. 
Ben presto si è capito che le autorità non vedevano l’ora di chiudere la vicenda e spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su qualcosa di meno imbarazzante.


La giudice ha fatto tutto il possibile per non far trapelare nulla fuori dall’aula. Tanto per cominciare, ha fatto sospendere lo streaming dal vivo del dibattimento, sostenendo che si trattava di una misura a difesa delle parti lese. Poi, il secondo giorno, ha spostato il processo in un’aula più piccola, che poteva ospitare non più di
dieci giornalisti. Solo quando chi è rimasto fuori ha cominciato a protestare, si è tornati nella vecchia aula. Il giorno seguente la giudice ha vietato anche l’uso di Twitter. 
Il processo, la condanna, l’aura del martirio: le Pussy Riot non avevano previsto niente del genere. Ma la loro esibizione ha toccato un nervo scoperto,

e la reazione esagerata dello stato è diventata subito parte dello spettacolo. Insomma, se il primo atto (la preghiera punk) era stato giudicato troppo provocatorio perfino da alcuni progressisti, il secondo (il
processo alle streghe) si è trasformato in una cause célèbre che ha riunito tutto il fronte dell’opposizione. Al processo sembrava di essere di fronte a un esempio perfetto di un genere letterario tipicamente russo: la
commedia nera che racconta i lati comici e assurdi dell’oppressione. E infatti le tre Pussy Riot hanno riso sonoramente per tutto il dibattimento.

Il che ha fatto ripetutamente perdere le staffe alla giudice, che a un certo punto ha strillato: “Dev’essere proprio divertente per voi!”. A quel punto la Alëkhina, trattenendo a stento una risata, ha risposto: “Macché, è tristissimo”. 
Definire quello delle Pussy Riot un processo spettacolo equivarrebbe a sminuirne

l’estetica grottesca. Non è stato un processo spettacolo, ma uno spettacolo sì: un sontuoso spettacolo tragicomico in cui tre ragazze di poco più di vent’anni, pur senza averne l’intenzione, hanno messo sotto scacco il regime.

Il 17 agosto le Pussy Riot sono state condannate a due anni di reclusione.



(Julia Iofe è una giornalista statunitense di origine russa. Vive a Mosca)

Fonte: Internazionale N°963, 24/30 agosto 2012.

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